Quasi un miracolo per il giovane scrittore nato 37 anni fa a Cleveland, in Ohio, reso possibile dalla straordinaria accoglienza riservata al suo romanzo d’ esordio, The End, che dopo il debutto in Francia e Germania è anche pubblicato in Italia dalle edizioni 66thand2nd con la traduzione di Beniamino Ambrosi.
Attraverso gli eventi di un singolo giorno – la sagra organizzata a Ferragosto del 1953 nella Little Italy di Cleveland Elephant Park, quaranta righe di incipit che gli sono costate cinque anni di lavoro – Scibona racconta mezzo secolo d’ immigrazione italiana in America.
Sacrifici, dolori, pregiudizi razziali (un odio contro i neri che nel 1966 portò ai famigerati tumulti di Cleveland) e tensioni morali di un gruppo di espatriati tra cui un fornaio che rifiuta di accettare la morte del figlio nella guerra di Corea, una vedova che procura aborti in cantina, un gioielliere appassionato di storia, simpatizzanti del KKK che durante le processioni religiose reggono la Madonna.
«Mio nonno era muratore, mio padre metalmeccanico: entrambi marine, veterani del Sud Pacifico e del Vietnam», racconta lo scrittore, sorseggiando un cappuccino al Fairway Café sulla Broadway. Parla un ottimo italiano, imparato durante un soggiorno di nove mesi in Italia, nel 1999, grazie al sussidio Fulbright.
«Era la prima volta che mettevo piede fuori dall’ America – precisa -. Per moltissimi italoamericani il Bel Paese è un luogo mitico che esiste solo nella fantasia». Dopo quattro mesi a Roma è andato in pellegrinaggio a Mirabella Imbaccari, il paesino in provincia di Catania dove nacquero i suoi bisnonni. «La mia famiglia ha talmente rimosso la parabola migratoria che in casa storpiavamo persino il cognome, che pronunciavamo Schibona, all’ americana. Io sono il primo Scibona ad aver messo piede in Sicilia, da ben quattro generazioni». Eppure è stata proprio la Sicilia rurale dell’ 800 a spingerlo verso la scrittura.
«Ogni settimana facevo un tuffo indietro nel tempo, visitando la mia bisnonna Domenica Spriglione con i miei fratelli e sorelle nella sua mitica fattoria sperduta dell’ Ohio». «Era lei la matriarca del clan e la mia grande musa – incalza -, un’ analfabeta intelligentissima e spirituale, che indossò il lutto dalla morte del marito nel 1952 fino alla propria nel 1994».
Anche la maggior parte dei personaggi di The End sono analfabeti o con scarsa istruzione alle spalle. «La sfida maggiore del mio libro è stata articolare tensioni metafisiche dal punto di vista di persone che non possiedono il vocabolario adatto per esprimerle». Anche se parla un inglese sgangherato, Rocco, il panettiere del romanzo, ha una vita interiore profonda.
«Volevo ribaltare il pregiudizio diffuso tra le élite culturali Usa, secondo cui per porsi quesiti metafisici devi avere un master». A dire il vero lui il master ce l’ ha. Dal prestigioso Iowa writers’ Workshop dove ha studiato con la grande Marilynne Robinson. «Come scrittore, sei sempre ciò che mangi – scherza -. Oltre alla Robinson io ho divorato Faulkner, Toni Morrison, Virginia Wolf, Freud, George Eliot e Saul Bellow, che nel 1998 pubblicò il mio primo racconto nella sua rivista “News from the Republic of Letters”».
Tra le sue passioni c’ è anche il Nobel Halldòr Laxness.
«L’ estate scorsa ho visitato la sua casa natale in Islanda e ho annusato le sue cravatte». Ma il suo grande idolo resta Don DeLillo. «Fu lui a salvarmi la vita quando, a Roma, mi sentivo solo e depresso perché non parlavo una parola d’ italiano e riuscii a trovare una copia di Libra in lingua originale».
Più tardi gli scrisse per ringraziarlo e DeLillo gli ha persino risposto: «Ho incorniciato la sua lettera», confessa arrossendo. Ma il suo debito di riconoscenza con l’ autore di Underworld va oltre: «Sono stati scrittori come DeLillo e Richard Russo a spianarci la strada – dice -, la loro opera tesa all’ assimilazione e alla cancellazione delle radici ha permesso alla mia generazione di tornare indietro nel tempo, senza timori e vergogna». Come si spiega, allora, che, mentre la letteratura ebraica americana conta innumerevoli voci, gli scrittori di origine italiana in America continuano a essere rari? «La nostra è una cultura più visiva e musicale – ribatte Scibona -. Hollywood e i teatri d’ opera sono strapieni di italiani».
Il fatto che lo stereotipo «italiani-mafia» continui a imperversare nello showbiz non lo disturba affatto.
«Il genere ha una sua dignità artistica come fiction pura. I “Sopranos” sono una serie geniale, ma di pura fantasia. Io non ho mai incontrato un mafioso in vita mia e, infatti, nel mio libro non ce n’ è neppure uno perché preferisco parlare di gente vera»
fonte http://www.ragusanews.com/articolo/16150/salvatore-scibona-scrittore-siciliano-fra-i-venti-piu-amati-in-usa