Inserito nella rassegna “Luglio suona bene”, si è tenuto all’Auditorium Parco della Musica uno dei due concerti italiani “Piano Solo” del mitico pianista americano. Evento unico, irripetibile, dinnanzi al pubblico delle grandi occasioni che ha gremito la Sala S. Cecilia. Il commento entusiasta di Giovanni Renzo, direttore artistico-musicale del Teatro V.E. di Messina: “E’ stata un’improvvisazione assoluta. Abbiamo assistito al formarsi del pensiero musicale”. La triste coincidenza con la scomparsa di Charlie Haden, che con Jarret ha condiviso tante esperienze, tra cui l’ultimo album, “Last Dance”, pubblicato appena un mese fa.
Occorrerebbe rubare una frase di una nota pubblicità di diamanti e dire: “Un concerto di Keith Jarret è per sempre”. Perché è proprio di un gioiello “immateriale” che si parla, ossia di un’opera unica, preziosa ed irripetibile.
Si è trattato dell’evento per eccellenza, inserito nella rassegna “Luglio suona bene”, in corso all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Con la differenza che, rispetto agli altri concerti che si tengono all’esterno, nella cavea, questo si è svolto nella Sala S. Cecilia, gremita per l’occasione in ogni ordine di posto, per un totale di oltre 2.740 spettatori.
L’evento conteneva già in sé aspetti di straordinarietà, poiché l’ultima volta Jarrett si era esibito a Roma “piano solo” ben dieci anni fa. Inoltre, come consuetudine, per i suoi concerti, è stato severamente vietato l’uso di macchine fotografiche, videocamere e telefoni cellulari. E non solo. “Il concerto di questa sera sarà completamente improvvisato e verrà registrato – ha annunciato la speaker in inglese ed in italiano – per questo vi chiediamo il massimo della collaborazione con il silenzio in sala, evitando rumori e colpi di tosse…”. Quella dell’incisione, dato il limitato numero di concerti, è una pratica usuale per Jarret, che decide soltanto alla fine di determinati periodi i propri live da pubblicare. Con la speranza che l’evento romano possa trasformarsi in un album, ecco dunque lo spettatore vestire, anch’esso, i panni da protagonista, con l’intento di poter dire, un giorno, “io c’ero…”.
Keith Jarrett, pianista e compositore, genio assoluto della musica contemporanea, considerato da molti il più grande musicista vivente, non ha bisogno, più di tanto, di presentazioni. Cresciuto artisticamente nel jazz a fianco di Art Blakey, Charles Lloid e Miles Davis, è divenuto ben presto una stella di prima grandezza e con il trio formato assieme a Gary Peacock e Jack DeJohnette, da trent’anni, incanta il mondo. Con lui, vantano una lunga e proficua collaborazione anche tanti altri musicisti, tra cui Paul Motian e soprattutto il grande contrabbassista Charlie Haden, scomparso a Los Angeles proprio in concomitanza con l’evento romano.
Ma nel carnet di Jarrett, ovviamente, non c’è solo jazz, ma anche musica classica, blues e quant’altro. Sin dagli anni settanta, la sua straordinaria tecnica d’improvvisazione pianistica, sia in studio che in concerto, gli ha consentito di incidere album “piano solo” passati alla storia, sui quali spicca “The Köln Concert”, anno 1975, ECM, un vero e proprio “vangelo” della musica, che ogni appassionato custodisce tra i preferiti. La sua ultima “perla” live, da solo, al pianoforte, risale al 2011 e si intitola “Rio”, dalla metropoli carioca dov’è stato registrato, sempre per la ECM.
Jarrett, com’è noto, non ha preconcetti: “Non ho neppure un seme quando comincio. E’ come partire da zero”, recita una sua frase ricorrente. E anche a Roma il “genio” non si è smentito, ed ha tenuto, con rigore, a ribadire la sua richiesta incondizionata sulla regole comportamentali del pubblico: “Respect”, era la sua parola d’ordine, sottolineata più volte dal palco, tant’è che in un’occasione ha interrotto il concerto perché accortosi che qualcosa, in quel senso, non stava funzionando.
Il maestro inizia con due ingressi sul palco: era troppo suggestiva quella sala gremita di appassionati, ciascuno preparato a vivere emozioni indimenticabili, per limitare ad un solo applauso l’inizio della serata.
Dodici pezzi magistralmente improvvisati, ai quali se ne aggiungono altri tre eseguiti in occasione di altrettanti rientri sul palco, in quasi due ore di concerto suddiviso in due parti, sono una cifra di tutto rispetto.
L’inizio è lento, riflessivo e introspettivo. Il maestro riscalda le mani e fa già assaporare una certa armonia. Proseguendo Jarrett accresce il taglio poetico, la composizione progredisce e si fa strada nel pensiero del “maestro” che con il corpo e la mente comunica con il pubblico in modo straordinario, a tratti commovente. Egli va dove lo portano il suo istinto geniale e la sua sapienza, componendo all’istante, non concedendo nulla al caso, assumendosi i rischi dell’estemporaneità. La melodia ha un suo percorso: nasce e cresce, si trasforma, declina come per incanto assecondando le intenzioni del “genio” e la poesia di chi ascolta. Jarrett sembrava catturare le note e i movimenti facendoli propri, incastonando dentro un progetto istantaneo la variegata realtà che gli si presentava davanti, disponendola secondo un ordine perfetto per stile ed armonia. Il tutto, producendo anche delle fatiche notevoli, smorzate a tratti dalla posizione in piedi, lo sguardo fisso dentro il pianoforte ed i consueti vocalizzi che caratterizzano le sue performance.
Sul finire della prima parte ecco l’imprevisto: Jarrett inizia il suo primo pezzo jazz, in cui il virtuosismo del pensiero si scatena sulle dita. Ma da lì a poco si accorge che il sentiero da tracciare si restringe e non gli offre gli spazi necessari per esprimersi al meglio. A questo punto il “genio” interrompe il pezzo, riflette un attimo, si scusa con la platea, spiegando con encomiabile umiltà ed onestà intellettuale l’accaduto. Sa fare anche questo il più grande pianista del mondo. Chiunque altro, pur di completare il brano, avrebbe continuato per altre strade, magari fuori schema e senza senso. Lui invece no, ha preferito fare un bagno d’umiltà che gli fa enormemente onore. Un altro caso simile si è verificato nella seconda parte del concerto, ma con meno impatto.
A chiusura della prima parte della serata, Jarrett ha raggiunto l’apice della perfezione con un’improvvisazione a dir poco indimenticabile che difficilmente si può descrivere: la tecnica, il gusto, la variegata armonia tra le note, il contatto e la simbiosi, anche corporali, tra l’artista, il suo strumento e la lirica che ne deriva, diventa un tutt’uno circolare, una fonte di bellezza che incanta tutti, interrotta soltanto dalla standing ovation finale.
Nella seconda parte Jarrett darà più spazio alla fantasia e al ritmo, nel segno comunque della continuità del percorso intrapreso poco prima. Notevole il richiamo, in un brano centrale, ai “ruggenti” anni della Impulse, dentro un genere brioso sapientemente contaminato dalla modernità. La lirica, la polifonia, la ricerca costante della migliore armonia possibile, condita dalla giusta cadenza ritmica, hanno caratterizzato anche la seconda parte della serata, dove tre rientri, tra gli applausi scroscianti del pubblico che ha partecipato appassionatamente a questa pagina di storia musicale, hanno concluso l’evento.
Abbiamo avuto modo e colto l’opportunità di seguire il concerto accanto ad un grandissimo “fan” di Jarrett: il pianista e compositore messinese Giovanni Renzo, attuale direttore artistico della sezione Musica del Teatro Vittorio Emanuele. E’ inevitabile, per chi conosce e segue Renzo, non notare in lui delle grandi affinità con il “gigante” americano, di cui conserva la discografia completa e ne conosce alla perfezione la storia artistica. In tal senso, nella seconda parte del concerto, proprio un’estemporanea jarrettiana era apparsa similare per stile e contenuti al Cosmic Concert, ultimo lavoro di Renzo: un’emozione che il direttore del Teatro ha saputo umilmente ed opportunamente contenere.
“Non è facile commentare un concerto del genere”, ci ha detto Renzo a chiusura dello spettacolo. “Abbiamo assistito al formarsi del pensiero musicale. E’ stata un’improvvisazione non tipicamente jazzistica, ma assoluta. Si notava Jarrett riempire il silenzio e fare ordine nel caos. Su questa musica vengono in mente tante immagini…” ha proseguito il pianista messinese, che poi si è soffermato sull’aspetto principale: “La cosa straordinaria, che non appare nelle incisioni, è vedere lo sforzo con il quale si produce l’ improvvisazione”.
Il risveglio da questo meraviglioso sogno, è stato purtroppo segnato dalla notizia della morte di Charlie Haden, compagno in arte e amico di Keith Jarrett.
Toccante leggere sul profilo facebook del pianista, un post dell’ 8 Maggio scorso, un mese prima della pubblicazione del loro ultimo album: “‘Last Dance’ is Keith Jarrett’s new album for ECM Records and will be released on June 13th. The project continues Keith Jarrett’s collaboration with Charlie Haden”.
La storia ci insegna che la grande musica non ha limiti definiti né di tempo né di spazio, così come l’arte, in genere, è immortale. Ma purtroppo, sulle collaborazioni, in senso stretto, tra questi due geni della musica contemporanea, è fatalmente calato il sipario.
Corrado Speziale