Questa è la risposta del governo dopo gli accorati appelli per gli italiani nelle mani dei pirati somali: “Intervento militare escluso su specifica richiesta”. E Palazzo Chigi nega la possibilità di riscatto: “Nessuna azione di favoreggiamento alla pirateria”
Il Governo italiano non è intervenuto militarmente per liberare gli italiani in ostaggio sulla nave Savina Caylyn su specifica richiesta delle famiglie.
E’ la risposta di Palazzo Chigi all’appello per la liberazione dei rapiti lanciato dopo la drammatica telefonata dell’ufficiale Eugenio Bon a suo padre.
“Su specifica richiesta delle famiglie non si e’ finora percorsa la strada dell’intervento militare per la liberazione degli ostaggi”, si legge in una nota di Palazzo Chigi diramata in seguito a un incontro tra il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta e i familiari dei sequestrati.
“Il Governo – si specifica – non può d’altra parte sostenere alcuna azione che si traduca in favoreggiamento del fenomeno della pirateria”.
In altri termini, l’esecutivo esclude la possibilità di pagare un riscatto per ottenere la liberazione.
“Le famiglie dei connazionali sequestrati – prosegue il comunicato – hanno incontrato i massimi vertici istituzionali che hanno loro assicurato il massimo impegno del Governo”.
La comunicazione ufficiale arriva due giorni dopo un altro incontro, alla Farnesina 2, al termine del quale Nicola Verrecchia, figlio del direttore di macchine della Savina Caylyn, Antonio Verrecchia, aveva fatto sapere che la situazione era “in stallo”. “Abbiamo chiesto se lo Stato italiano potesse garantire sull’incolumità dei cinque italiani sequestrati a bordo della nave – aveva precisato Verrecchia – Ci hanno risposto con supposizioni derivanti da un monitoraggio che si basa solo sulle imbarcazioni che si avvicinano alla petroliera, e null’altro.
Sulla trattativa ci hanno detto ancora una volta che è in corso e che hanno incontrato l’armatore della nave”.
Sempre due giorni fa, in una drammatica telefonata alla moglie, il comandante della nave, Giuseppe Lubrano Lavadera aveva detto: “Stiamo male, aiutateci ad uscire da questa nave perchè se non andremo via subito qualcuno non tornerà a casa”.
La Savina Caylyn è stata sequestrata l’8 febbraio al largo delle coste della Somalia da un gruppo di pirati somali.
«Ma l’Italia sa che noi siamo abbandonati qui da febbraio, può fare qualcosa per non lasciarci morire? Perché tutti ci hanno abbandonato? Papà ti prego fai tu qualcosa per salvarmi».
“Sto morendo, le gambe non le sento più, non riesco a camminare, ho la pelle tutta rovinata, ormai ci torturano ogni giorno, sono sfinito”.
per ascoltare tutta la telefonata cercatela su youtube.
Qualcosa per salvare gli italiani dovrà però pur muoversi. In un’altra recente telefonata dalla Somalia, il Capitano Lubrano Lavadera ha descritto condizioni di detenzione da tortura.
I prigionieri non possono stendersi.
Hanno per questo sviluppato edemi alle gambe e infezioni della pelle, mentre i medicinali che erano a bordo sono finiti.
A causa dei mancati progressi nelle trattative con i sequestratori somali, le razioni di cibo somministrate loro dai pirati sono per giunta drasticamente diminuite. Oggi ricevono un pugno di riso a testa e acqua razionata in condizioni climatiche torride. L’aria condizionata non è in funzione sulla nave e le condizioni igieniche sono intollerabili. Lubrano si è rivolto al Presidente della Repubblica, al Capo del governo e al Papa, affinché intervengano per la liberazione dell’equipaggio.
Una minaccia di morte esplicita da parte dei pirati ha gettato nel panico uomini già provati da mesi di prigionia. «Abbiamo ricevuto la macabra minaccia di decapitazione di un membro dell’equipaggio se non verranno esaudite le richieste di riscatto», ha detto al telefono alla moglie il capitano della “Savina Caylyn”.
I pirati somali, è noto, non hanno interesse a uccidere. Vogliono soldi. E tanti.
Escluso il blitz, la sola strada percorribile per riportare a casa gli italiani è il negoziato con i rapitori. Al sicuro nella loro roccaforte, i predoni del mare che tengono in mano gli italiani considerano il riscatto offerto dalla società armatrice, Fratelli D’Amato, tramite un intermediario britannico insufficiente, rispetto alla richiesta, stimata intorno ai sedici milioni di dollari.
A differenza dei rapiti e delle loro famiglie, i pirati non hanno fretta. L’incremento del business negli ultimi anni li ha messi in una botte di ferro. Oggi sono armati meglio che in passato e agiscono anche a grande distanza dalla costa, spostandosi non più dalla terraferma, ma da altre navi. Lo dicono gli esperti della Maritime Scurity Review.
Il costo totale per le assicurare le navi che transitano per le zone calde della pirateria al largo delle coste dell’Africa orientale è attualmente, secondo l’agenzia Reuters, pari a 3.2 miliardi di dollari annui. Gli introiti dei pirati sono proporzionali a tale cifra.
A margine dei lavori dell’Assemblea generale dell’Onu, la settimana prossima, Frattini incontrerà a New York il primo ministro somalo Abdiweli Mohamed Ali, con cui discuterà della “Savina Caylyn”. Il governo somalo è sotto assedio in casa propria. Non controlla l’intero territorio e nemmeno la capitale Mogadiscio. Sarà difficile che possa garantire un intervento risolutivo per gli italiani.
I pirati che tengono in mano i nostri connazionali e i colleghi indiani sono assidui consumatori di foglie di qat, una sostanza stimolante tradizionalmente utilizzata per sopportare meglio l’afa, serve oggi come marcia in più nelle scorribande marittime. In altre parole agiscono sotto l’effetto di stupefacenti.
E per ogni giorno che passa il prezzo per liberare gli italiani aumenta.
«La richiesta di riscatto aumenta di 250mila dollari al mese», ha detto il capitano della nave chiedendo aiuto all’Italia.
Pagare oggi, insomma, potrebbe costare meno che domani. In più, salvando vite umane.