Abbazia di Piona

tratto da http://www.visit-comolake.com

La Storia:

All’estreme falde di un costolone che scende robusto e gibboso, e fratto in alcuni punti, dalle vette del Legnone e del Legnoncino, sulla radura della selvosa collina tondeggiante di Olgiasca che, a forma di una grossa e sgraziata testuggine, mollemente digrada e decisamente si spinge nell’acqua, si erge, raccolta e raccordata sul chiostro quadrangolare, seppur con vistose appendici al nucleo primitivo, la struttura massiccia dell’abbazia di Piona, vegliata da un campanile che ha l’aspetto, di un faro di segnalazione.

Ubicata nella parte nord della sponda orientale, quasi al cominciare del lago di Como, di rimpetto alle cittadine graziose di Gravedona, di Dongo e di Domaso, poco distante, seppur leggermente decentrata e protetta, dalla confluenza della Valtellina e della Valchiavenna – da sempre vie di comunicazione e di commercio ed anche, purtroppo, di invasione e di aggressione – l’abbazia: costituisce un monito ed una speranza di pacifica convivenza e di cristiana collaborazione, emblematicamente rappresenta, tra le tante famose e civettuole ville che si specchiano nel lago, una presenza privilegiata, la solidificazione della preghiera, della fiducia, della speranza che si innalzano verso il cielo dalle mille contrade laboriose che si aggrappano sulle sponde.

In essa una piccola colonia di miti e pacifici monaci cistercensi, seguendo la ultramillenaria saggezza di san Benedetto, patriarca del monachesimo d’Occidente e patrono di Europa, raccoglie e sublima con la vita intessuta di preghiera, di lavo o e di raccoglimento, con umana e cristiana condivisione, la gioia, il dolore, l’ansia di tanti fratelli vicini e lontani, bisognosi di luce e di conforto; l’abbazia diventa, secondo il vangelo, la lucerna posta sul candelabro, la cittadella costruita sull’altura che non può essere tenuta nascosta.

Il cippo:

La prima documentazione storica di questa terra, su cui hanno lasciato l’orma della loro presenza, o almeno del loro passaggio, i Liguri, i Celti, i Galli, gli Insubri, gli Etruschi, i Comensi, i Romani, è costituita da un cippo, su cui è stato scolpito, a memoria, che il vescovo Agrippino di Como (607-617), nel decimo anno del suo mandato, fece erigere un oratorio dedicato a santa Giustina martire, lo completò in ogni sua parte, ne fece sistemare le sepolture e ne celebrò la dedicazione. Il cippo, con l’esplicita menzione all’oratorio e alle sepolture, lascia trasparire chiaramente che in questo lembo di terra già allora si fosse costituita una comunità monastica, probabilmente di impostazione eremitica..

Una conferma in tal senso, comunque, ci viene fornita dalle notizie riportate dallo storico Tatti, il quale elencando i monasteri della diocesi, afferma, senza tuttavia citarne la fonte, che nell’824 il «primo scorgeasi a Piona e portava il nome di santa Giustina». Di questo antichissimo oratorio resta come testimonianza, seppur tra pareri discordi degli storici dell’arte, una piccola abside, poco discosta e leggermente rialzata rispetto al livello della chiesa attuale. Una svolta decisiva, che rappresentò un impulso rivitalizzante per la comunità monastica, si ebbe quando Piona, probabilmente alla fine del secolo XI, fu inserita nel movimento della riforma cluniacense. Per incuria degli uomini è andato perduto l’atto ufficiale dell’adesione; ma dal documenti autentici degli altri tre priorati cluniacensì nella zona – San Pietro di Vallate (1107), San Giovanni Battista di Vertemate (1084), San Nicola di Figine (1107) – possiamo verosimilmente concludere che anche la comunità monastica di Piona sia entrata in tal periodo nel movimento di riforma.

Dalla metà del XII secolo ci è pervenuta una documentazione lacunosa e frammentaria, sufficiente, però a lumeggiare la parabola prima ascendente e, poi, discendente della vitalità, anche economica, dell’abbazia fino all’introduzione della Commenda e, ancora, fino alla soppressione napoleonica. Di particolare importanza riteniamo un documento della metà del XIII secolo (1236-1244), pubblicato dal Marrier, in cui esplicitamente si fa menzione di una tassa di 13 lire imperiali, riscossa da Guglielmo da Lenora, visitatore della casa-madre Cluny. In un documento del 1277 è annotato che nel monastero vivevano otto monaci, che l’osservanza monastica era svolta regolarmente, che vi erano sufficienti viveri e che la cassa del monastero era in pareggio.

Resti dell’abside dell’antico oratorio di santa Giustina prima dell’attuale sistemazione.

La Riforma cluniacense

Il documento più importante, tuttavia, della vitalità della comunità all’inizio di questo periodo di rinnovamento e di impulso nuovo è costituito dalla struttura stessa del monastero che espresse e solidificò in pietre, con slancio creativo, un ideale di vita monastica che tanta importanza e tanta incidenza ebbe, con tutte le implicazioni di ordine religioso, sociale, politico ed economico, alla fine del secolo XI. L’adesione, infatti, alla riforma cluniacense che prevedeva se non necessariamente la sostituzione dell’antica comunità, almeno l’invio di un folto numero di monaci dalla casa-madre, comportò anche, di conseguenza, un’impostazione già collaudata di vita e una concezione nuova dell’universo monastico con una disposizione delle strutture che, dallo studio di molti monasteri del tempo, risulta essere divenuta obbligante.

Il chiostro: “Paradisus claustralis…”

Il monastero benedettino, dopo il Mille, prevedeva, secondo il modello della villa romana, gli ambienti monastici, disposti in modo funzionale ed armonico, intorno al chiostro che, anche se realizzato in un secondo momento, diveniva non solo il punto di riferimento ideale della pianta come un perno attorno al quale ruotava tutta la struttura, ma, anche, la misura che scandiva spazi e proporzioni. Il chiostro rappresentava, così, per il monaco benedettino, il Paradisus claustralis, la porta coeli, il fons signatus con tutta una simbologia che serviva di ammonimento e di edificazione per la vita spirituale. Si può, dunque, legittimamente ipotizzare che i nuovi monaci di Piona siano intervenuti sul vecchio oratorio di santa Giustina in attesa della nuova chiesa che, secondo una prassi storicamente documentata, era la prima delle quattro ali del monastero ad essere realizzata. Il monastero era un organismo che armonicamente cresceva intorno alla chiostro secondo le esigenze della comunità monastica e secondo le possibilità economiche, senza, tuttavia, mai alterare le proporzioni delle parti.

Il monastero Dedicato alla Beata Vergine Maria e a San Nicola di Bari

È documentato che il monastero di Piona, dopo l’adesione al movimento della riforma cluniacense, fu dedicato alla beata Vergine Maria come pure, ad appena sedici anni di distanza, venne indicato come Ecclesia sancti Nicolai, avvenimenti questi diversamente spiegati dagli storici locali e variamente giustificati dagli studiosi dell’arte. Lo storico Giussani riporta, infatti, che nel settembre del 1906, mentre venivano realizzati i primi restauri della chiesa, venne alla luce un’iscrizione a fresco di m. 2.15×1.60 – di cui resta attualmente un riquadro a calce in cui si intravedono residue lettere pellegrine – con un’epigrafe già allora mutila da cui, tuttavia, si ricavava con sicurezza la data della consacrazione (1138) da parte del vescovo Ardizzone di Como (1125-159) e la dedica alla beata Vergine, un titolo molto caro all’ambiente monastico e già esclusivo per le abbazie cistercensi. Gli storici del monastero non sono stati in grado di stabilire, però, se proprio in occasione della dedicazione del 1138, o di un intervento successivo o e di un improbabile trasferimento della comunità di San Pietro di Vallate, la chiesa sia dedicata anche a san Nicola di Bari, quale co-patrono, culto largamente attestato in zona in quanto protettore dei naviganti.

Certamente in un documento autentico di vendita del 1154 viene affermato esplicitamente a mane sancti Nicolai de Piona. Il Marcora, nella sua pregiata pubblicazione sul priorato, propende per l’ipotesi che san Nicola sia stato scelto come co-patrono già nella dedicazione del 1138. Un’epigrafe mutila, infatti, riporta, con la dedica alla beata Vergine, nomi ben leggibili di altri santi e, in chiusura, all’ultimo rigo, ben visibile il nome di san Lorenzo martire.

Cluny: Abbazia madre

Piona, dunque, aderì al movimento di riforma cluniacense in una data non meglio precisabile, sicuramente, però, a cavallo tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del successivo e fu annoverata tra le molte case, più di cinquanta, della cosiddetta Provincia o Cameraria di Lombardia nel periodo in cui l’abbazia-madre, Cluny, si faceva carico della riforma di tutta la Chiesa e produceva il massimo sforzo per rompere lo scellerato servaggio rappresentato dall’investitura laica.

La Congregazione cluniacense si presentava in modo fortemente centralizzato tramite visite regolari, capitoli generali e provinciali e con responsabilità affidate ai vicari delle singole Province o camerarie.

L’abate di Cluny godeva di una forte autorità personale anche se non dichiaratamente definita: a lui, incombeva, tra l’altro, il dovere di ricorso alla Santa Sede e la punizione dei delitti più gravi, la conferma degli abati e dei priori, la possibilità di procedere all’assegnazione dei monaci tra le diverse case in modo da assicurare a ciascuna di esse la possibilità di un servizio divino decoroso.

Dalle carte di visita e dalle deliberazioni dei Capitoli generali abbiamo la possibilità di rilevare gli elementi costitutivi della vita e della spiritualità cluniacense: la pratica dell’obbedienza e della mutua carità, l’impegno nella celebrazione della vita liturgica, l’esercizio dell’ospitalità secondo le possibilità economiche delle singole case. Le relazioni di visita, seppur frammentarie, sono, per il priorato di Piona, fonti preziose di documentazione perché annotano, di volta in volta, il decoro della liturgia, lo stato economico e amministrativo, l’impegno nella disciplina monastica, il numero dei religiosi. Una particolare sottolineatura esse riservano al dovere dell’ospitalità e non tralasciano di stigmatizzare qualche fatto di eccezionale gravità.

Un lungo periodo di decadenza

Già nel corso del XIV secolo cominciarono ad affiorare i sintomi di una progressiva decadenza cui i superiori competenti cercavano di porre gli opportuni rimedi: il ridotto numero dei monaci, i priori abitualmente assenti al monastero, la mancanza di concordia nella comunità, i debiti che tendevano ad aggravarsi.

Dall’insieme dei documenti di cui disponiamo risulta che la comunità era costretta a ricorrere a prestiti e che, quindi, si veniva determinando una situazione economica che non permetteva la manutenzione adeguata dei fabbricati monastici, l’esercizio tradizionale dell’ospitalità e l’elargizione abituate delle elemosine al poveri fino a costringere, per ripianare i debiti, all’alienazione di beni ricevuti in donazione. Sono documentati anche gli interventi della casa-madre, Cluny, per far fronte ad una situazione che si andava deteriorando ed a cui non si riusciva a porre rimedi risolutivi: sussidi in denaro, invio di monaci per rinsanguare la comunità, richiami al decoro della liturgia e al dovere delle opere di misericordia.

Emblematica a questo riguardo è una deliberazione del Capitolo generale del 1397 che puntualmente ed autorevolmente dichiara: Prioratus S. Nicolai de Payona, Comensis diocesis, ubi debent esse cum Priore octo monachi et debent celebrare cotidie Missam cum nota elemosina ibidem petentibus erogatur.

All’inizio del XV secolo la situazione tendeva a peggiorare. Tra gli ultimi sussulti di vita l’organismo si avviava fatalmente alla chiusura.

Da un documento del 1432, rinvenuto dal Giussani nell’archivio Comunale di Como, abbiamo la conferma di quanto era stato già scritto dal Tatti e, poi, dal Rovelli. Alla morte del priore Imblavado de’ Caimi, che era rimasto l’unico monaco in Piona, il duca di Milano Filippo Visconti, convinto di essere il legittimo amministratore dei beni ecclesiastici nell’eventualità in cui i monaci fossero venuti a mancare o avessero abbandonato per una qualsiasi causa, deputò, con atto del 20 febbraio del 1432, quale economo-amministratore dei beni del priorato, un certo Stefano Castello.

La commenda

Certamente vi fu una reazione a questa intrusione secolare. Documenti posteriori, infatti, attestano altri due priori, uno nella persona di Antonio Cardano di Morbegno, l’altro nella persona di Pietro Birago. Quest’ultimo, di nobile famiglia milanese, deve essere considerato, però, come l’anello di congiunzione del priorato regolare all’amministrazione secolare commendataria. È significativo, infatti, che proprio della famiglia Birago sia stato il primo abate commendatario, Daniele Birago.

Anticamente il termine commenda indicò l’affidamento dell’amministrazione provvisoria di una chiesa o di un monastero vacante ad un prelato, generalmente privo di un ministero e di risorse, designato dalla Sede Apostolica.

Dalla seconda metà del XIV secolo la commenda fu un atto istituzionale e riguardò solo i benefici regolari, raramente le chiese parrocchiali e favorì, in genere, i secolari contro la norma regularia regularibus. Essa procurava una rendita vitalizia ad un titolare lontano, senza un’autorità vera e propria, il quale si limitava a riscuotere le rendite monastiche senza preoccuparsi del governo dell’abbazia, della manutenzione dei fabbricati, del mantenimento dei monaci. La commenda ridusse in breve tempo i monasteri della penisola italiana, anche le grandi plurisecolari abbazie, ad uno stato di estrema miseria e di desolato abbandono.

Caustico il giudizio di Rosmini sulla commenda: «Fra le più deplorevoli illusioni di parole o, per dir meglio, vere menzogne, debbonsi enumerare le commende. Questa amministrazione dei beni ecclesiastici, financo dei monasteri e dei vescovadi, concedevasi anche a persone laicali che, così, ne godevano a man salva i frutti. Come chi dicesse, dandosi una pecora al lupo, che così si fa per raccomandarla alla sua diligenza. Tutta la giurisdizione fu pervertita da somiglianti nequitosissime menzogne».

Nel priorato di Piona la commenda si protrasse per la durata di oltre tre secoli, attraverso una serie di ben diciannove abati commendatari, che ebbe inizio, almeno dal 1488, con Daniele Birago, nominato successivamente arcivescovo titolare di Mitilene, ed ebbe termine con monsignor Giuseppe Bertieri, vescovo prima di Como e, poi, di Pavia. Il guasto provocato nel monastero dall’amministrazione commendataria balza con evidenza dagli atti delle visite pastorali effettuate dopo il concilio di Trento. L’antico priorato cluniacense viene descritto in uno stato di estrema povertà e di assoluto abbandono per quanto riguarda le suppellettili e la vita liturgica e di fatiscente degrado per quanto riguarda la struttura muraria. Gli atti della seconda visita pastorale, quella del vescovo di Como Feliciano Ninguarda, del 7 novembre 1593, per quanto riguarda i fabbricati, letteralmente recitano:«il monastero e le case di esso sono tutte rovinate, guasti i tetti per i quali, piovendo, sono guasti i muri et i legni, se bene vi sono luoghi per sei stanze di sopra e tre di basso et il chiostro da basso di colonne di marmo intorno a forma di monastero et del resto tutto in ruina, si come sono pieni la corte et giardino di sterco, spino, et niuno vi provvede. Intorno la chiesa vi è un cimiterio tutto sporco e mal’in essere et vi entrano bestie e nel cimiterio vi sono due porte una per la quale si entra nella porta del monastero e, l’altra in certi giardini e nella vigna. Il campanile non ha l’uscio et dentro è tutto guasto e stanno per cascare le campane et le porte senza serrature».

La legge del 19 fiorile anno VI (8 maggio 1798) della Repubblica Cisalpina autorizzava a traslocare, a concentrare e a sopprimere le corporazioni religiose e ad avocarne i beni alla nazione.

Il Direttorio, con decreto del 14 pratile (2 giugno), incamerava tutte le abbazie sia di patronato regio sia della cessata Corte di Roma.

Soppressa la commenda ed incamerati i beni ecclesiastici, con atto notarile rogato nell’11 aprile 1801 “nell’Ufficio del Ministero di Finanza Generale sito nel palazzo Marini”, al cittadino grigionese Salis Tagstein furono assegnati i fondi dell’ex priorato di Piona valutati “di pertiche 522.12 con l’estimo di scudi 734.3.1 tutto compreso, stimati del valore di £. 11.142.18.4 dalle quali dedotto il valore della Chiesa ed abitazione del Vicario (che dicesi in cura di anime) calcolate a £. 1023 restano diecimila cento diecinove soldi 18.4 diconsi £. 10.119.18.4 Ragione della Pesca del Lago di Piona di pertiche 1937.18 non censito, stimate lire quindicimila, diconsi 15.000. £. 25119.18.4”.

Dal Salis Tagstein la proprietà passò alla famiglia Sacchi di Gravedona, poi ai Genazzini di Bellagio, quindi ai Pezoni ed ancora ai Casati di Gravedona e, nel 1904, alla signora Angela Rizzi in Secondi.

Ma furono gli studiosi ed i critici d’arte a salvare, in qualche modo, il complesso monastico. Il risveglio d’interessamento per il patrimonio culturale, che caratterizzò il decorso dell’800, indirizzò l’attenzione verso l’ormai fatiscente monastero, interessò l’opinione pubblica, sensibilizzò le autorità responsabili. Per l’ex-priorato cluniacense vi fu, alla fine del secolo XIX, un primo intervento di restauro che risultò, purtroppo, assolutamente inadeguato; ma un secondo intervento, promosso, nella prima decade del ’900, dall’ingegnere Antonio Giussani, segretario del Consiglio Direttivo della Società Storica Comense, ottenne l’appoggio degli organi statali competenti e l’adesione di privati cittadini e risultò, almeno per la chiesa, appropriato, tanto che l’ingegnere, nel 1908, scrisse soddisfatto: «La voce che oggi s’è desta in ogni canto d’Italia e che nelle città e nei villaggi sprona ogni più sana energia alla tutela del patrimonio artistico della nazione è risuonata pure lassù e così forte quale prima d’ora fra noi mai era avvenuto».

Questo vivo interessamento diede copiosi frutti materiali i quali permisero di porre tosto mano ai lavori e di condurli quasi a compimento.

Il vetusto monumento, però, restava muto, freddo e senza vita come un reperto archeologico dentro un’asettica sala di museo; esso reclamava la funzione per cui era stato eretto, la presenza viva e vivificante di una comunità monastica orante. Sembrava un desiderio impossibile da realizzare a causa sia della difficile disponibilità di cessione da parte dei legittimi proprietari sia della difficoltà a reperire una comunità benedettina che si accollasse l’onere di una filiazione. Ma la storia, alla lunga, anche dopo circostanze tragiche, riannoda i fili spezzati, avvicina realtà e finalità che sembrano distanti, pacifica e rimargina lacerazioni che sembrano insanabili.

Da una terribile sciagura, perpetrata nella lontana terra d’Africa, come un fiore tra le spine, germinò e crebbe, in coscienze cristiane provate ma purificate nella memoria, un progetto di perdono e di pacificazione che investì e coinvolse anche il monastero di Piona.

Il 12 novembre 1935 il dottore Emilio Secondi di Torino vendeva la proprietà del monastero al commendatore Pietro Rocca, esponente di una famiglia imprenditoriale che, di lì a poco, fu segnata da una irreparabile disgrazia.

Cesare, fratello del commendatore, dopo un periodo di attività presso la Società di Val Formazza, era partito per lavorare in Africa alle dipendenze della Società Gondrand ed aveva ottenuto l’affidamento della costruzione di un tronco stradale nella zona di Fil‑Fil. Il cantiere fu trasferito, in seguito, a Mai-Lalà, qualche chilometro al di là dell’antico confine eritreo, oltre il Mareb, a poche centinaia di metri dalla prima linea dov’era, allora, attestato il fronte italiano durante la campagna etiopica. Nella notte tra il 12 e il 13 febbraio due colonne dell’esercito etiopico diedero l’assalto e seminarono la strage nel cantiere Rocca: Cesare e la moglie Lidia Maffioli vennero travolti nella sciagura.

Dopo la tragedia nel cuore del commendatore Pietro e in quello della madre, Annetta Pogliani, incominciò a germinare il desiderio di un progetto nobile per ricordare il sacrificio di Lidia e di Cesare «un’opera di bontà cristiana che perpetuasse l’olocausto delle loro giovani vite e quelle di tutti i loro compagni di lavoro, generosamente sacrificatisi per la grandezza della patria».

Il progetto si concretizzò tramite la mediazione del professore Luigi Pirelli, oriundo di Varenna, reduce dall’Asmara. Questi, durante una visita nell’abbazia di Casamari, raccolse la voce che la comunità monastica da qualche anno si preparava, per incarico della santa Sede, all’impiantazione del monachesimo cattolico in Etiopia. Egli prospettò, dunque, al commendatore Rocca la possibilità di legare le due realtà e di affidare, in segno di perdono e di purificazione della memoria, il monastero di Piona alla Congregazione di Casamari che si sarebbe impegnata all’insediamento di una comunità di monaci nell’antico priorato cluniacense. Dalle lettere d’intesa intercorse tra il professore Pirelli, il commendatore Rocca, l’abate di Casamari e il vescovo di Como emerge con evidenza il proposito che la presenza dei monaci cistercensi in Piona dovesse servire non solo a perpetuare la memoria dei coniugi Rocca, ma dovesse costituire anche, e soprattutto, un gesto tangibile di riconciliazione, di pacificazione della memoria, di superamento di ogni inimicizia, di augurio di un mondo migliore fondato sulla collaborazione. Il 20 settembre, l’abate di Casamari, p. Angelo Savastano, scriveva, tra l’altro, al vescovo Alessandro Macchi di Como: «Il ripristino del vetusto cenobio, col perpetuare la memoria dei coniugi Rocca, barbaramente trucidati in Africa Orientale nell’eccidio del cantiere Gondrand, avrebbe lo scopo precipuo di dare maggior incremento alla nostra istituzione Collegio Etiopico per il monachesimo indigeno che già da sette anni fiorisce qui in Casamari».

Il 25 settembre 1937 il commendatore Pietro Rocca, assistito dalla madre faceva “ampia ed irrevocabile donazione” di tutta la tenuta di Piona alla Congregazione cistercense di Casamari al fine di “eternare la memoria dei loro congiunti, Cesare e Lidia, e perché detti Padri cistercensi, vi istituiscano una loro casa religiosa, rimettendo, così, in onore la celebre abbazia”. Il 13 febbraio 1938, a due anni esatti dal massacro di Mai‑Lalà, un drappello di monaci bianchi, provenienti da Casamari, accompagnati dal p. abate don Angelo Savastano, accolti dal vescovo diocesano mons. Alessandro Macchi, dalla famiglia Rocca, da una folta rappresentanza del clero dell’alto Lario, prese canonicamente possesso del priorato, tra due ali di folla festante. Alla fine del solenne pontificato, dopo i discorsi ufficiali, fu scoperta, ad perpetuam rei memoriam, una lapide commemorativa sopra la porta d’ingresso al chiostro. Il commendatore Rocca, nel suo diario, finemente annotava: «Così, insieme ad una delle migliori valorizzazioni di quell’arte che fu coltivata con tanto gusto e finezza dal maestri comacini, il visitatore sentirà la bellezza e la santità di un sacrificio, e la preghiera gli salirà spontanea sulle labbra: le preghiere non hanno bisogno di monumenti, ma li fanno sorgere. Non si è voluto solo riaprire al culto una chiesa e rioffrire ai turisti un’altra squisita testimonianza di un’arte lombarda, ma si è voluto dare a Piona una vita feconda di bene, affidando l’abbazia ai Padri cistercensi di Casamari».

Dopo quattro secoli di silenzio e di abbandono, il monastero ha sentito di nuovo pulsare la vita ed ha vissuto un’altra intensa stagione lavorativa in opere di risistemazione, di adattamento, di sbancamento, frutto di perizia, di sensibilità, di amore, secondo lo spirito del primitivo movimento cistercense – amatores Regulae, fratrum et loci – e secondo le caratteristiche dell’architettura cistercense, fondata sul criterio della gravitas, per cui tutta la struttura ed ogni elemento di essa sembra traspirare geometria ed armonia ed ogni cosa risponde ad un’esigenza di ordine e di decoro che conviene alla casa di Dio. I monaci hanno fatto di Piona la perla del Lago di Como con interventi tesi ad esaltare senza contraffare, ad abbellire senza tradire la struttura originaria. Prima di morire il commendatore Pietro Rocca ha voluto compiere un altro atto di genuino affetto, vendendo ai monaci la Malpensata, una villa cinquecentesca, immersa nel verde e nel silenzio, che si affaccia sul lago con quattro loggiati sovrapposti di cinque arcate l’uno, sorrette al lati da due robusti avancorpi, fortemente ancorata, nella parte posteriore, al declivo della collina. La villa, costruita sui ruderi del massericio, anticamente epicentro della vita economica e sociale del monastero e delle poche famiglie di Olgiasca, è stata restituita alla originaria funzione di luogo di carità.

Dal 1983, infatti, la comunità monastica – eretta già dal 1970 a priorato conventuale con larga autonomia amministrativa – ha concesso la villa al Padri Somaschi e in seguito, alla associazione “Il Gabbiano” che ne ha fatto un centro per il recupero di giovani tossico-dipendenti. La comunità monastica ha curato anche la ristrutturazione di un fabbricato a fianco della chiesa e lo ha adibito per foresteria di gruppi autogestiti con la denominazione fortemente evocativa, di Oasi San Benedetto. Tanti turisti restano, infatti, spesso sorpresi dalla presenza e dalla vitalità di alcune comunità monastiche; si recano a visitare e ad analizzare il monumento e si vedono investiti dal calore composto e solenne di una liturgia che emana dalla profondità dei secoli, avvertono il respiro lungo della storia che si incarna in un umanesimo vissuto. Manifestano anche il desiderio di condivisione della spiritualità benedettina, organizzata sul ritmo dei tre momenti intercomunicanti dell’ora, del labora e della lectio in monasteri che, dopo la spogliazione dei paludamenti feudali, sono tornati alla primitiva ed incisiva funzione di testimonianza dell’amore del Cristo crocifisso e risorto, di luoghi dello spirito in cui “nell’esercizio delle virtù e nella fede, il cuore si dilata e la via dei divini precetti viene percorsa nell’inesprimibile dolcezza dell’amore” (San Benedetto, Regola).

La chiesa:

La strada, acciottolata, serpeggiando sinuosa in mezzo al fitto bosco, discende da Olgiasca seguendo un tracciato che aggira da nord la collina con un ventaglio di scorci panoramici che si aprono sulla parte settentrionale del lago, sulle graziose e caratteristiche cittadine dirimpettaie di Dongo, di Gravedona, di Damaso, di Gera Lario, sulle giogaie alpine del Gregagna che si allungano, profonde, sullo sfondo.

Dopo un percorso di un chilometro e mezzo circa, quando si perviene ad un pianoro in riva al lago, la strada è segnata da due robuste colonne laterali, sormontate dalle statue solenni e severe, rispettivamente, di san Benedetto e di san Bernardo in atteggiamento certo di accoglienza, ma anche di protezione e di ammonimento a non profanare la zona sacra, quasi un pomerio monastico, che si estende nelle immediate vicinanze del monastero. A destra, in fondo, incastonata tra le aiuole pensili del piazzale e gli alberi ornamentali, leggermente arretrata rispetto al lato occidentale del monastero cui si appoggia, sovrastata dalla parte superiore del campanile vistosamente decentrato sulla linea orizzontale dell’alzato, appare nella sua spoglia eleganza la facciata della chiesa, concepita in linea verticale sull’asse della porta d’ingresso, della monofora che campeggia nella parte centrale e dell’apertura a forma di croce nella sommità sotto la cuspide cui convergono i due cornicioni, impostati sui due piedritti di sostegno, accompagnati dalla danza ritmicamente ascensionale delle arcatelle.

La facciata è stata arricchita, senza tuttavia alterare e appesantire le linee architettoniche, dalla porta in bronzo dello scultore Giuseppe Abram (1982) il quale sui due battenti ha rappresentato sei riquadri con episodi della vita di san Benedetto tratti da I Dialoghi di san Gregorio Magno.

L’ornamentazione delle arcatelle, linea di raccordo ideale, prosegue lungo le pareti laterali esterne, la cui superficie è scandita da una serie di monofore e di strette e sottili lesene.

L’abside, semicircolare, allegerita da tre piccole ed eleganti monofore a tutto sesto ed impreziosita, nel sottotetto, da una corona di arcatelle, presenta nell’alzato un notevole stacco: mentre nella parte più bassa la muratura è realizzata con pietre ben squadrate e ben allineate, in quella superiore manifesta una scelta meno accurata di materiale e un lavoro più rozzo di realizzazione. La discontinuità è dovuta, secondo i critici, ai diversi tempi di realizzazione.

A destra dell’abside si erge, seppur frenato da numerose mensole-marcapiani, il campanile quadrangolare – un rifacimento del XVII secolo – snellito nella parte superiore da strette ed alte feritole e da oculi disposti simmetricamente, coronato da una cuspide impostata sulle quattro fornici a tutto sesto della cella campanaria.

Verso la chiesa converge tutta la vita monastica: in essa il monaco giustifica, realizza e sublima la sua consacrazione a Dio con la celebrazione dell’Opus Dei: “nel cuore della notte mi alzo per renderti lode, o Dio”, e “sette volte al giorno canterò le tue lodi”.

La chiesa di Piona, a navata unica, volta ad oriente, a pianta irregolare, è lunga 27.60 metri, larga 8, e alta 9.50.

Dall’austerità degli elementi costruttivi, dalla sobrietà della decorazione, dalla prospettiva che indirizza l’attenzione verso l’altare come punto di riferimento ideale al centro dell’abside, dalla percezione tangibile della cura per l’ordine, per il decoro, per la pulizia, emana la spiritualità tipica delle chiese benedettine medievali, quell’atmosfera mistica, quell’immediata sensazione della chiesa come luogo della presenza di Dio e come spazio riservato, secondo la Regola di san Benedetto, alla preghiera comunitaria e personale.

Ad una osservazione attenta risaltano alcune caratteristiche peculiari che, in mancanza di informazioni precise, potrebbero costituire il presupposto per una ricostruzione storica attendibile. La chiesa risulta eccessivamente oblunga, senza alcun metro di proporzione rispetto alla larghezza ed all’altezza, irregolare nelle rette geometriche di profondità, discontinua nell’opera muraria. Di fatto le due pareti laterali in pietra scura, che sorreggono il soffitto in legno a travature orizzontali, sono, nella parte centrale, sensibilmente slargate verso l’esterno. È, forse, un espediente escogitato dal costruttori per garantire, in sostituzione dei contrafforti esterni di sostegno, maggiore stabilità alla costruzione.

Nella fiancata sinistra, da metà verso l’abside, e nella fiancata destra, dalla linea di congiunzione tra le due monofore centrali, la scelta del materiale e l’opera muraria sono meno ricercate e più rozze in confronto di quelle verso la facciata, nel cui alzato, del resto, è evidente la medesima discontinuità.

L’abside, a volte a botte, è raccordata e, nel medesimo tempo in qualche modo distinta, quasi un’apertura di proscenio, dalla parte anteriore da un massiccio arco trasversale che ne riduce sensibilmente l’elevazione. Anche nella parte interna essa ripresenta quelle caratteristiche di discontinuità di materiale e di messa in opera tra la parte inferiore e quelle superiori e laterali già riscontrate nella parte esterna. Si ricava l’impressione che delle tre monofore del catino quella di destra abbia subito dei rimaneggiamenti in quanto non solo non sembra inserita in modo organico nella concezione, ma addirittura deturpi l’affresco dell’abside.

Per tutte queste considerazioni qualche storico ha avanzato l’ipotesi che la chiesa primitiva dovesse essere preceduta da un atrio, poi incorporato. La congettura potrebbe essere avvalorata dalla testimonianza del Ninguarda che nelle carte della visita pastorale del 1593 scriveva: “Detta chiesa è tramezzata quasi nel meggio di un muro et in alto circa 4 brazze”.

L’interno si presenta austero, privo di decorazioni ad eccezione degli affreschi del presbiterio e dell’abside.

All’ingresso fungono da supporto alle acquasantiere due leoni marmorei accovacciati che recano ancora i segni delle colonne, cui servivano da piedistallo, probabilmente nell’atrio, come sostegno del pronao: “Tozzi, a grosso muso allargato, criniera rigida e schematica, corpo pesante, essi sono considerati opera dei tardo-campionesi”.

Sulla parete di sinistra è collocata una tela molto venerata, decisamente devozionale, di Telemaco Pergola (Roma 1869‑1953), la Regina pacis, che offre al mondo il bambino dal corpo allungato e con le braccia allargate, in una positura emblematica a croce, con allusione immediata alla redenzione attraverso la croce. Ai piedi del trono semicircolare, due personaggi, ginocchioni, rivestiti di armature, depongono le armi ai lati di un volume spalancato da cui risaltano le parole di Cristo: Ego autem dico vobis: diligite inimicos vestros (ma io vi dico: amate i vostri nemici). La tela fu dipinta in occasione di un concorso bandito a Roma dalla Santa Sede al termine della prima guerra mondiale. Il quadro è stato donato a Piona dal Pergola nel 1943 come segno di riconoscenza per l’ospitalità ricevuta e della profonda amicizia da cui si sentiva legato alla comunità monastica.

Tra la seconda e la terza monofora, sempre della fiancata sinistra, è ben visibile un vasto riquadro ad intonaco in cui, secondo la testimonianza del Giussani, una iscrizione non più leggibile perpetuava la memoria della consacrazione della chiesa ad opera del vescovo di Como Ardizzone nel 1138 e la dedicazione a Maria Vergine e a san Nicola di Bari.

Lungo la parete destra è esposta un’urna cineraria pagana, rinvenuta nel 1966 durante i lavori di sistemazione del coro, la quale conservava i resti mortali della giovane Festina, morta tra il IV e il V secolo dopo Cristo, che la madre, in lacrime, volle ricordare nell’iscrizione. Il presbiterio, in quanto luogo della celebrazione dell’azione liturgica e in quanto, secondo lo schema tradizionale delle chiese monastiche medievali, punto di convergenza, insieme con l’abside, di tutta la struttura architettonica, è la parte più curata, abbellita in epoca romanica, da affreschi con riferimenti storici, teologici, mistici e morali.

In Piona, sebbene il deterioramento non permetta una lettura sicura, l’unità tematica dovrebbe essere la glorificazione della verità del messaggio di Cristo fondata sulla testimonianza degli apostoli che, intorno a san Pietro, sempre caratterizzato dalle chiavi del regno, costituiscono il fondamento solido della Chiesa che celebra perennemente il sacrificio dell’agnello immolato e glorificato.

Sulla volta del presbiterio, in tre scomparti, è rappresentata, probabilmente l’Ascensione del Signore al cielo. Al centro e al culmine dell’arcone trasversale il Cristo benedicente, racchiuso in un cerchio ben circoscritto da due fasce di colore diverso, è sorretto da quattro angeli. Più in basso, negli altri due dall’uno dall’altro lato, sono raffigurati gli apostoli, in gruppi di sei per riquadro, che reggono con una mano un volume o un rotolo della legge e alzano l’altra, more romano, in segno di acclamazione e di saluto. La scena è di gusto orientale, d’ispirazione bizantina. L’atteggiamento degli apostoli è compassato, il gesto rituale. I volti, imberbi o affilati da baffi spioventi e da barbe a punta, non hanno, pur con grandi occhi, molta espressività. Il Marcora indica, sul medesimo soggetto, riscontri interessanti nel portale di Anzy-le Duc (Saona e Loira), nel timpano di Montceaux-L’Etoile (Saona e Loira) ed anche in un’ampolla conservata nel duomo di Monza.

Nel catino dell’abside campeggia, dentro una mandorla, una grande figura di Cristo, verosimilmente in trono; egli sostiene con la mano sinistra un libro aperto su cui spiccano le affermazioni neotestamentarie di Cristo quale centro della storia e della vita dei singoli:

EGO                                 VIA
SUM                                VERITAS
LUX                                 ET VITA
MUNDI                          ALFA ET OMEGA

La mandorla è simmetricamente fiancheggiata dagli animali-simboli degli evangelisti. La raffigurazione del Cristo trionfante, ma anche giudicante, la Maiestas Domini, è sostenuta, sotto la fascia decorativa, nel cilindro dell’abside, dal corteggio statico ma maestoso dei dodici apostoli. Le varie scene sono dipinte in campiture a tre fasce: in basso sempre il giallo e, poi, l’azzurro ed il verde in alternanza. Il tutto è raccordato da una greca, un fascione decorativo, contenuta dentro forti listoni in rosso, per lo più a motivi geometrici o a racemi. Anche le rimanenti superfici della zona presbiterale dovevano essere dipinte; nella parte bassa dell’abside, a destra, sono ancora visibili frammenti di velario. Il deterioramento degli affreschi è documentato già dalle carte di visita pastorale del Volpi nel 1578 e da quelle della visita del Ninguarda del 1593, il quale testualmente annota “cappella maggiore in volta pinta, ma con le figure del tutto guaste”.

In un’epoca non ben precisabile gli affreschi furono ricoperti da uno strato di intonaco e rimasero nascosti fino al restauro del 1906. Per tutto il corso del secolo è stata svolta un’accorta opera di conservazione e di prevenzione. La composizione pittorica è interrotta, nell’abside da una monofora. Originariamente, probabilmente, l’abside era stata realizzata con tre monofore; al momento della decorazione però, furono tamponate la monofora di destra e quella centrale, mentre quella di sinistra, per esigenza di luce, fu ingrandita in forma rettangolare. C’è da tener presente, però, che anche nel caso che l’accorgimento sia originario, sebbene inconsueto, non risulterebbe unico nel panorama dell’architettura romanico-lombarda.

Negli anni antecedenti allo scoppio della seconda guerra mondiale le aperture furono modificate: la monofora di destra venne riaperta causando uno stacco alla successione pittorica degli apostoli e quella rettangolare di sinistra venne trasformata nella classica forma romanica.

Il Chiostro:

Il chiostro, sempre quadrangolare, è il punto di riferimento di tutto il complesso monastico. Organizzato secondo un’idea distributiva è misura dei singoli locali che formano un compatto nucleo di edifici rettilinei disposti ai quattro lati. È considerato il cuore del monastero perché è il centro della vita dei monaci così come lo è della sistemazione urbanistica.

Lo sviluppo del monachesimo benedettino romano, agli inizi del IX secolo, sotto l’influsso dell’imperatore Carlomagno e di san Benedetto d’Aniano, impone in tutto l’occidente una concreta interpretazione del monachesimo cristiano fino alla concezione di un modello architettonico ben determinato.

Il monastero è concepito come un edificio in cui “i monaci militano sotto una regola e sotto un abate”. Dalla Regola di san Benedetto, però, risulta evidente più la preoccupazione dell’organizzazione interna della comunità che della disposizione e della struttura degli edifici. «Il monastero si costruisca, possibilmente, in modo da potervi trovare tutto il necessario, cioè l’acqua, il mulino, l’orto e gli ambienti per le varie attività così che i monaci non debbano girovagare fuori, cosa che non recherebbe alcun vantaggio alle loro anime».

Attorno a questi principi spirituali e disciplinari si viene delineando e concretizzando la struttura del monastero benedettino. Bisogna, però, attendere l’epoca carolingia, quando i monasteri benedettini, diventano l’elemento portante della riorganizzazione civile e del risveglio culturale, per trovare i primi esempi concreti: Saint Riquer, San Gallo, Fontenelle.

Per quanto riguarda il modello storico, l’edilizia monastica sembra ispirarsi, nella struttura fondamentale, alla villa romana, soprattutto nel chiostro che riprende il peristilio nell’intento di raggruppare e di collegare le parti in una costruzione funzionale ed armonica.

Sotto l’influsso della riforma cluniacense si verifica un risveglio febbrile di attività costruttive che si manifesta sia nella fondazione di nuovi monasteri sia nell’adattamento e nell’ampliamento di strutture esistenti sempre secondo lo schema dell’ordinata articolazione degli edifici attorno al chiostro. L’esame di un notevole numero di monasteri sorti in questo periodo in Europa testimonia che l’impianto di Cluny, quale modello organizzativo, è divenuto vincolante.

Il chiostro rappresenta a tal punto l’universo fisico e spirituale del monaco che il derivato claustrale non solo diviene l’aggettivo qualificativo per eccellenza della vita monastica, ma addirittura, usato in modo sostantivato, è termine sostitutivo di monaco: il claustrale, la claustrale.

Dal chiostro si accede a tutti gli altri ambienti: all’oratorio, alla sala capitolare, al refettorio, ai dormitori, all’infermeria, alla biblioteca. Nel chiostro i monaci si riuniscono prima e dopo i lavori, passeggiano, leggono, fanno le processioni nei giorni di maggiore solennità, si ritrovano alla fine della giornata per ascoltare la lettura spirituale. Per questo motivo il chiostro è carico di una forte valenza teologica, morale, spirituale e mistica.

È il luogo dell’incontro dell’uomo con Dio creatore e redentore, è la scuola della dilezione dove il monaco fa esperienza dell’amore fino, nella sublimità, all’unione mistica, all’incontro nuziale dell’anima con Cristo.

Il chiostro è il luogo del silenzio in quanto non semplice norma disciplinare, negazione di una delle più nobili dimensioni umane qual’è la comunicazione interpersonale, ma come disposizione e condizione indispensabile al dialogo coli Dio.

Nel silenzio della contemplazione l’anima si ripiega su sé medesima, riposa libera e, riparata dai pensieri mondani e materiali, medita sui beni spirituali.

Il chiostro emana una forte carica evocativa e simbolica secondo le ricorrenze e i tempi liturgici, secondo gli stati emotivi personali, secondo il progresso spirituale dei singoli: le gallerie, i colonnati, il giardino interno, l’acqua, gli alberi.

La struttura stessa del chiostro, la forma obbligatoriamente quadrangolare è legata al significato simbolico del numero quattro che, nella cultura antica, è il numero che esprime l’universo: la terra che poggia su quattro colonne, i quattro elementi dell’universo, i quattro punti cardinali, i quattro venti, le quattro stagioni. Le quattro gallerie, da quella ad ovest a quella a sud, indicano e riproducono umano ed il pellegrinaggio spirituale del monaco verso l’amore perfetto di Dio, e rispettiva mente, il disprezzo di sé, il disprezzo del mondo, l’amore del prossimo e l’amore di Dio. Ogni lato ha la sua fila di colonne; alla base di Tutte vi è la pazienza. Il giardino interno riproduce e riecheggia, in piccolo, la varietà, la bellezza e l’armonia del cosmo, in cui i quattro elementi sono non solo rappresentati ma riprodotti: la terra che vi è coltivata, l’acqua che vi sgorga, l’aria in cui è avvolto, la luce da cui è inondato. È un perfetto osservatorio dei tempi e delle stagioni, delle costellazioni e delle fasi lunari.

Il simbolismo ripercorre e lega, con forte accentuazione antropologica, la storia dell’universo e dell’umanità, dalla promessa alla realizzazione, dal giardino dell’Eden al giardino di Pasqua, da Adamo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, a Cristo, figlio di Dio, nuovo Adamo, vero albero della vita, piantato al centro del paradiso, vera acqua che dal fonte battesimale zampilla per la vita eterna. In questo senso si può parlare del chiostro come paradiso claustrale e, più precisamente, come paradiso intermedio, come luogo dì passaggio dal paradiso perduto di Adamo, al paradiso ritrovato in Cristo.

Il giardino evoca la freschezza, la purezza e la perfezione dell’opera appena uscita dalle mani di Dio, la luminosità e la grazia della presenza di Dio che “trova sua delizia lo stare con i figli dell’uomo”. I capitelli, i peducci riproducono, in dovizia, le forme vegetali ed animali che l’immaginario medioevale attribuisce all’Eden dell’inizio.

Ad immagine del macrocosmo, uscito fresco e palpitante di vita dal caos primordiale, il microcosmo claustrale traspira bellezza ed armonia: costruito con sapienza divina secondo peso, numero e misura è la più alta realizzazione estetica, espressione e riflesso di una bellezza che non si spiega ma che si contempla, aspirazione alla visione di Dio coinvolgente più e meglio di qualsiasi argomentazione metafisica ed intellettuale. Il giardino del chiostro è, in genere, quadripartito; scandisce le tappe della spiritualità monastica attraverso quattro tempi: il giardino dell’Eden, il giardino del Cantico dei Cantici, il giardino degli Ulivi, il giardino di Pasqua.

Addossato al lato meridionale della chiesa, fatto costruire come attestano due lapidi, tra il 1252 e il 1257, de suis propriis dal priore Bonaccorso de Canova da Gravedona, il chiostro di Piona rappresenta uno degli esempi più suggestivi dell’architettura romanico-lombarda. Di forma quadrangolare, progettato su un terreno fortemente in pendenza, si sviluppa, secondo i dati di misurazione rilevati dal Marcora, su una concezione di totale asimmetria e si articola in quattro gallerie ineguali per lunghezza, per larghezza, per altezza e per planimetria. L’accorgimento, da un punto di vista estetico, dona dinamismo e movimento armonico alla struttura.

La costruzione è serrata agli spigoli da quattro massicci pilastri, cui si appoggiano, con andatura di danza, gli archi a tutto sesto, leggermente ribassati, la cui curvatura ritmica viene finemente ripetuta e sottolineata da una ghiera sottile ed elegante in mattoni rossi.

Gli archi si slanciano su colonne impostate su basamenti a largo toro, con unghiature protezionali agli spigoli, e coronate da folti capitelli a crochet, fortemente marcati, con frutti pendenti, a foglie spiegate o chiuse, a fiori sbocciati.

Sugli abachi è posizionata, quale elemento di appoggio agli archivolti, una pietra poligonale, segnata da una profonda scozia che raccorda il piallo dei capitelli a quelli dei muri interni ed esterni, sensibilmente pronunciati.

I capitelli offrono la tradizionale varietà di soggetti cara al romanico, spesso ricca di significati simbolici: foglie, volute, teste e corpi animali, mostri, testine umane. I temi sono trattati con uno spiccato gusto per i volumi netti, segnati con precisione e morbidezza secondo una precisa partizione spaziale. Le figure emergono prepotentemente offrendo un gioco di luce e di ombre larghe e marcate.

In quello di Piona, oltre agli elementi caratteristici comuni a tutti gli altri chiostri monastici, ve ne sono dei particolari e specifici, fortemente allusivi. Già il numero stesso delle colonne per ogni lato può essere letto in modo simbolico: le 11 colonne del lato ovest simboleggiano il collegio degli apostoli dopo la defezione di Giuda Iscariota, le 10 del lato nord i comandamenti, le 12 del lato est le tribù d’Israele, le 8 del lato sud la risurrezione di Cristo. Nella galleria del lato nord, quella che affianca la parte muraria della chiesa, su di un abaco e su alcuni capitelli sono scolpiti serpentelli con il volto di donna. Sono elementi interessanti in relazione all’ambiente: camminando, meditando e leggendo nella galleria del disprezzo del mondo il monaco viene ammonito ed esortato a non farsi sedurre, a non farsi tirar fuori, come, purtroppo, era accaduto ad Adamo nel giardino dell’Eden, dalle tentazioni e dalle seduzioni del serpente e della donna, ma a tenere il cuore fermo in Cristo, a camminare con la Chiesa.

Nel lato est, su di un capitello di fronte all’ingresso del capitolo, è scolpito il volto severo di un uomo che può essere considerato il simbolo dell’autorità, responsabile dell’ordine e dell’armonia comunitaria.

Nel lato sud, nella galleria dell’amore di Dio, è, senza dubbio, interessante il quinto capitello, nella direzione est-sud, su cui è raffigurata con forte evocazione simbolica, la descrizione del diluvio universale narrato dalla Bibbia in Gen. 7-8: sul lato est le acque hanno già sommerso tutta la terra, sul lato interno, a sud, le acque sono sorvolate dal corvo che non trova dove posarsi, sul lato ovest le acque sono sorvolate dalla colomba che reca nel becco un ramoscello d’ulivo, verso il giardino è scolpito un albero, verosimilmente una palma, segno della fine del diluvio e pegno di pace di Dio con l’umanità.

In tutte e quattro le gallerie sono presenti molte aquile e, con più precisione, otto scolpite sugli abachi e quattro gruppi di aquile, di quattro aquile ciascuno, su quattro capitelli. L’aquila, ritenuta capace, dalla cultura medioevale, di fissare direttamente il sole e che, nell’imminenza della morte, spicca il volo verso l’alto, rappresenta, nella simbologia del tempo, il monaco che, nella vita del chiostro, contempla incessantemente il volto di Dio ed è proteso all’incontro definitivo con il Signore.

La critica, seppur non in modo unanime, riconosce un’ascendenza borgognona al linguaggio figurativo dei capitelli, anche se da una certa rigidezza nell’interpretazione delle superfici lisce suppone una forte e radicata rappresentanza di lapicidi locali.

Sui lati ad est, a sud e ad ovest si innalza il fabbricato, ricostruito e ristrutturato, in cui sono disposte le celle dei monaci, e una sala per le riunioni della comunità monastica.

Una serie di bifore e di finestroni, secondo i lati, che giocano sulla simmetrica alternanza del bianco e del grigio, danno aria e luce agli ambienti.

L’opera muraria, dalle ghiere delle bifore delle gallerie fino agli spioventi del tetto, è geometricamente ripartita, oltre che da un elegante cornicino bianco marcapiano, da listoni orizzontali, di diverso materiale e di diverso colore secondo i lati, che donano vivacità e brio alla massa.
Gli affreschi del chiostro

Un’attenzione particolare meritano gli affreschi del chiostro. Subito all’ingresso, nella parete dell’andito, una scena, ampiamente mutila nella parte in basso, databile, secondo i critici, ai secoli XV-XVI, raffigura l’apparizione di Cristo a Maria di Magdala. L’affresco è stato sovrapposto ad un altro più antico di cui rimangono un fregio e due lettere in giallo-oro sormontate da corone regali.

Il risorto, circonfuso di luce, sorregge con la sinistra un’asta su cui sventola, gonfiata dal vento, la bandiera della vittoria con la dicitura: Lux et vita sum.

Un cartiglio si srotola dalla spalla sinistra del Cristo verso la figura posta di fronte con l’ammonizione alla Maddalena: Noli me tangere. La scena è riquadrata in uno sfondo rosso mattone. Nell’angolo in alto sopra la cornice, a sinistra di chi guarda, lo scudo con l’aquila dovrebbe essere lo stemma del committente non ancora identificato.

Particolarmente interessanti ci sembrano i dipinti murali eseguiti, nella galleria a nord, sulla parete della fiancata esterna destra della chiesa. Essi si snodano dentro una fascia decorativa lunga m. 16,60 ed alta m. 1.40, ad un’altezza dal pavimento di m. 1.70 ca. La fascia si presenta attualmente molto frammentaria; mancano completamente la prima parte, quella centrale e quella terminale. Sono conservati solamente due grandi frammenti della lunghezza di in. 4 e di m. 4.50 ca.

La fascia è divisa longitudinalmente in due registri: in quello inferiore sono raffigurati santi entro spaziature rettangolari alternate a specchiature in finto marmo e a decorazione geometrica, in quello superiore i mesi dell’anno alternati a rettangoli con decorazione geometrica. Il settore superiore è suddiviso in riquadri da fasce rosse, quello inferiore da fasce gialle. Fra i due settori corre una fascia di cm. 10 con un motivo a fisarmonica di cui è conservato il colore dì una sola faccia su quattro. Nel registro inferiore, nella direzione da ovest ad est, nei frammenti del primo riquadro è individuabile un cavallo e, a lato, un personaggio non meglio specificabile.

Nel secondo emerge un san Giovanni Battista in una iconografia singolare: un personaggio decollato tiene in mano la propria testa e la porge ad un altro con l’aureola, che potrebbe essere il medesimo santo, che regge con una mano un libro e con l’altra l’agnello mistico racchiuso in un cerchio. Nel terzo è raffigurata santa Margherita che, tenendo in alto la croce, libera la fanciulla che il drago tiene stretta nelle fauci. Nel quarto, conservato solo a metà, san Lorenzo è posto sulla graticola con il fuoco acceso e con, allo spigolo in alto, il carnefice che armeggia con una forca. Nel quinto è rappresentato il martirio di santa Caterina d’Alessandria legata alla ruota, con il carnefice da un lato e con i genitori dall’altro. Viene poi un santo non meglio identificabile disteso su di un palo con il carnefice intento a sistemarne una gamba. Nell’ultimo riquadro si intravedono solamente i frammenti di una testa e di una grande ala. I riquadri con santa Margherita, con san Lorenzo e con santa Caterina, quelli dei martiri, sono sovrastati dalla mano di Dio benedicente. Nel registro superiore il calendario dei mesi è caratterizzato dai lavori stagionali: sempre nella direzione ovest-est il mese di agosto dalla preparazione delle botti, il mese di luglio dalla battitura delle spighe, il mese di giugno dalla mietitura del grano, il mese d’aprile dalla figura femminile che stringe tra le mani due mazzi di fiori, il mese di marzo dalla figura maschile con tre facce che soffia in due corni, il mese dì febbraio dalla potatura degli alberi, il mese di gennaio dalla lavorazione del maiale.

Le parti figurative del registro superiore coincidono con quelle decorative del registro inferiore e viceversa. I motivi decorativi del registro superiore sono costituiti da rettangoli in cui lo spazio interno è diviso in 24 quadrati, ognuno dei quali contiene due semicerchi di colori diversi su un fondo rosso con due piccoli fiori bianchi. Questo tipo di rettangolo è alternato con un altro in cui nella decorazione vengono inseriti dei quadrati che contengono un fiore stilizzato.

I motivi decorativi del registro inferiore sono formati da due tipi di specchiature in finto marmo – una bianca con contorno rosso, l’altra rosa con un contorno rosso cupo – e da un rettangolo con motivi ad onde in diagonale rosse e grigio-azzurre con fiorellini bianchi. “Questi affreschi dovevano stare sulla parte esterna della chiesa: sono di un secolo antecedente la costruzione del portico. Lo stile è semplice e decorativo nell’essenziale personificazione della scena senza sfondi. Vi è, soprattutto nelle immagini simboliche del calendario, una vitalità spontanea delle figure non ambientate ma conducenti l’azione da sé sole e richiamanti le coeve miniature lombarde Anche nel nostro calendario, almeno per quello che riguarda i mesi, il tono è dimesso, di maniera non colta, popolare ma non volgare. Le figurazioni dei mesi sono ormai sciolte da clause ritmiche, dall’equilibrio classicheggiante né sono improntate alle inflessioni bizantine: è un discorso semplice senza complicazioni di simbologie né di stimoli di filosofie, ma un richiamo chiaro a quanto si compie ogni giorno ad utilità propria e degli altri” (C. Marcora). Nella medesima galleria, sulla porta posticcia che dal chiostro immette nella chiesa, c’è un affresco, in gran parte mutilo, della figura del Redentore, di attribuzione incerta, che è stato sottoposto ad un restauro maldestro. Nella parete della galleria orientale, vicino all’ingresso della sala capitolare, resta ben visibile lo stemma dell’abbazia di Cluny, casa-madre di Piona. Nella galleria sud del chiostro è affrescata la scena di san Benedetto che respinge la tentazione, così narrata da san Gregorio Magno nel Secondo Libro dei Dialoghi: «Alla sua fantasia lo spirito maligno ricondusse l’immagine di una donna, che aveva conosciuto anni prima. Toltosi le vesti, si gettò nudo tra i rovi e le ortiche e con le ferite del corpo guarì quelle dello spirito».

“La vivacità dei colori, lo stile, il costume della donna ci portano in pieno Trecento. Viene il sospetto che forse tutto il portico fu a quell’epoca affrescato con raffigurazioni di episodi riferentesi alla vita del patriarca dei monaci d’occidente” (C. Marcora).

La costruzione del chiostro nel monastero è stata ripresa dal portico di Salomone, eretto attiguo al tempio. In esso gli apostoli tutti erano soliti radunarsi in armonia di sentimenti e da qui si raccoglievano nel tempio per la preghiera; e la moltitudine dei credenti era un cuor solo ed un’anima sola; essi mettevano tutto in comune (Atti, 4). Secondo questo modello i religiosi vivono nel chiostro in concordia di spirito e, sia di notte che di giorno, nel monastero sono impegnati nel servizio divino. E ancor oggi i fedeli abbandonano il mondo e perseguono nel chiostro la vita in comune.

Il chiostro è, inoltre, figura del paradiso terrestre (Gen. 4) che configura il monastero come un luogo di paradiso più ameno dell’Eden: quella che nell’Eden era la fonte delle delizie, nel monastero è la fonte del battesimo, quello che nell’Eden era l’albero della vita, nel monastero è il corpo del Signore. I diversi alberi da frutta simboleggiano i diversi libri della sacra scrittura.

La separazione del chiostro evoca, infatti, l’immagine del cielo dove i giusti sono separati dai peccatori così come coloro che professano la vita consacrata sono separati, nel chiostro, dai secolari. Del resto i monasteri sono immagine del paradiso celeste. La fonte e l’albero della vita sono simbolo del Cristo il quale è la fonte della vita e l’alimento dei beati. Nel monastero due cori cantano lode a Dio; e nel paradiso celeste gli angeli e i santi, con soave armonia, canteranno eternamente al Signore. La grandezza di coloro che nel chiostro sono dediti al servizio di Dio consiste nel fatto che essi hanno, nella vita religiosa, un cuor solo ed un’anima sola e tutti hanno ogni cosa in comune così come nella patria celeste tutti gli eletti avranno un cuor solo ed un’anima sola nel vincolo della carità e tutti avranno ogni cosa in comune, perché colui che avrà qualcosa in meno in essa lo riceverà negli altri lì dove Dio è tutto in tutti. “Nel chiostro ognuno occupa, secondo l’ordine, il proprio posto; così nel paradiso ognuno riceverà il proprio posto secondo i propri meriti”. Onorio di Autun (1080 ca – † dopo il 1153), Gemma animae.

La sala capitolare:

La sala capitolare, secondo la pianta tipica dei monasteri benedettini e cistercensi, è ubicata nel lato orientale del chiostro. In essa, anticamente, la comunità si radunava in tutti i giorni, dopo il canto di prima per l’ascolto dell’annunzio del martirologio, di un capitolo della Regola (da cui, probabilmente, la denominazione), e per il capitolo delle colpe, in cui i monaci si accusavano spontaneamente delle mancanze esterne contro la Regola per riparare al cattivo esempio e per chiedere il perdono dei fratelli.

In questa sala, più che altrove, la comunità monastica percepisce con chiarezza di formare una famiglia e di compiere il cammino insieme.

San Benedetto, nel capitolo terzo della Regola, riscrive: «Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l’abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l’affare in oggetto».

In questa sala la comunità elegge, con votazione segreta, il superiore, ammette i postulanti al noviziato e alla vestizione dell’abito monastico, si riunisce per la lectio divina, per le conferenze spirituali, e per la discussione dei problemi più importanti, durante la quale tutti i monaci liberamente, nella carità e nel rispetto reciproco, espongono le loro personali opinioni.

L’aula, ampia e luminosa, è stata così sistemata nel corso dei recenti restauri. Gli stalli e le spalliere in legno sono opera pregevole di scuola veneziana del secolo XVIII provenienti dalla sacrestia di san Zeno a Verona.

Alcuni pannelli sono impreziositi da figure intarsiate. Particolare attenzione meritano, sullo stallo centrale, il sole che irradia luce sulla terra; sul lato sinistro la figura di Adamo e sul destro quella di Eva messi fuori dal paradiso terrestre.

Nella parete destra dell’ingresso, una lapide ricorda che qui sono custodite le ceneri di Cesare e di Lidia Rocca.

L’Ordine Cistercense:

O Cîteaux, quanto è grande la tua famiglia! Quanto sei feconda nei figli! Quanto venerata tra i popoli! Alza gli occhi e guarda: tutti costoro si sono radunati, sono venuti per te; la professione di un’unica regola di vita ha consentito in te molteplicità di linguaggio e l’Ordine riunito da ogni nazione rinnova il miracolo della pentecoste nell’effusione dello Spirito Santo.
(Riccardo di Canterbury, Lettera al Capitolo generale, in PL, t. ccm, col. 303)

Il movimento cistercense era stato promosso, nel 1098, da Roberto di Champagne, abate di Molesme in Borgogna, seguito da un gruppo di ventuno monaci che avevano abbandonato il loro monastero per realizzare pienamente l’ideale di vita proposto da san Benedetto. L’abate Roberto, di spirito aperto e coraggioso, aveva fondato, nel 1075, l’abbazia di Molesme in condizione di estrema povertà. Ben presto, però, per le generose donazioni del duca di Borgogna e del conte di Troyes, l’abbazia era passata da una rigorosa povertà ad uno stato di agiatezza e di prestigio così da essere scelta nel 1084, quale sede di convegni feudali, rimanendo coinvolta e impelagata negli affari della società del tempo. Gli animi più sensibili deploravano la situazione ed auspicavano il ritorno allo spirito genuino della Regola di san Benedetto. Roberto scelse quale nuova sede il luogo solitario chiamato allora Cistercium (da cui la denominazione, poi, di Cistercense) e, in assoluta solitudine, instaurò con i confratelli un tenore di vita di preghiera, in spirito di povertà e nell’ascesi di un duro lavoro manuale, ristabilendo il sano equilibrio tra preghiera e lavoro, che a Molesme era stato fortemente alterato. Il ritorno alla puritas della Regola di san Benedetto non significò per essi un attaccamento ad un litteralismo insipiente ma lo sforzo di attingere in essa l’ideale evangelico fondamentale: la ricerca di Dio tramite la preghiera e il lavoro. Insieme a Roberto, molto contribuirono al buon esito del movimento cistercense, Alberico e Stefano, considerati, poi, co-fondatori dell’Ordine.

Alberico ottenne la concessione della protezione apostolica su Cîteaux dal papa Pasquale II con la bolla Desidenum quod del 18 aprile 1100 che assicurava al Nuovo Monastero assoluta indipendenza da Molesme: «Ordiniamo che il luogo che avete scelto per dimora in vista della pace monastica sia libero e al riparo da qualsiasi molestia da parte di chicchessia, riconosciuto come abbazia e sia posto sotto la protezione della Sede Apostolica, salva la riverenza alla chiesa di Chalon».

Stefano si preoccupò di conservare lo spirito del rinnovamento cistercense promuovendo disposizioni tese alla salvaguardia della povertà e della quiete monastica. Egli assicurò, soprattutto, l’unione e la concordia tra le abbazie, sostituendo alla subordinazione feudale la libertà nella carità e nel principio di sussidiarietà. Queste disposizioni furono stilate da Stefano in un documento-base chiamato Charta Caritatis, probabilmente la prima carta costituzionale europea: “Ritenevano che il documento dovesse essere denominato Carta di Carità, perché lo statuto, respingendo ogni gravame di esazione, persegue unicamente la carità ed il bene delle anime sia nelle cose divine che in quelle umane”.

L’impostazione di severa austerità non favoriva l’incremento della comunità, per cui si temette l’estinzione graduale di Cîteaux. Ben presto, però, la comunità fu risollevata dal clima di sfiducia con l’ingresso di Bernardo di Fontaines e di altri trenta nobili borgognoni, parenti ed amici, che fecero rifiorire le speranze e segnarono l’inizio di una rapida espansione che portò, nel breve arco di tre anni (1113-1115), alla fondazione delle abbazie di La Ferté, di Pontigny, di Clairvaux e di Morimond che, per dignità, furono considerate, sull’esempio della Chiesa primitiva, abbazie di primogenitura e formarono, insieme con Cîteaux, le cinque proto-abbazie a capo delle rispettive cinque ramificazioni che, poi, si espansero per tutta l’Europa.

I Cistercensi hanno dato ampio sviluppo all’economia agraria ed hanno organizzato lavori di bonifica con tecniche talora anche originali, come le marcite in Lombardia, per incrementare la produzione. In queste terre bonificate essi hanno edificato le loro abbazie dal nomi composti con riposanti aggettivi esornativi che, con trasparente e immediato riferimento alla vita spirituale, creano una sensazione di luce, di freschezza, di chiarore, di profumo: Aiguebelle, Fontfroide, Bonneval, Clairmont, Clairvaux. Tramite la mistica di Bernardo ha acquisito, man mano, una risonanza particolare, che ha presieduto anche, nel limiti del possibile, alla scelta del sito, il termine valle accompagnato di volta in volta dagli aggettivi chiara, sana, buona, lucente, aurea, bella, reale e per alcune abbazie di monache delle rose, dei gigli, della grazia. La letteratura romantica, influenzata negativamente dal rigorismo giansenistico, ha cercato di accreditare alla spiritualità cistercense una visione morbosa e pessimistica della natura umana. Il cistercense Gilberto di Hoyland, al contrario, ha posto esplicitamente l’accento sull’influsso che la bellezza dell’ambiente può esercitare sullo spirito: «Il luogo nascosto e denso di alberi, irrigato e fertile, e la valle boscosa che a primavera risuona del canto degli uccelli, ridonano vita allo spirito che muore, liberano l’anima che languisce per la stanchezza e rendono tenero il cuore duro e senza devozione».

I monaci cistercensi hanno contribuito incisivamente all’opera di civilizzazione cristiana dell’Europa con le loro fondazioni, con opere di colonizzazione, con le tecniche avanzate in agricoltura e nell’esercizio delle varie industrie. Essi hanno seminato a piene mani i benefici della carità sulle popolazioni che sono vissute all’ombra dei loro monasteri con le realizzazioni di ospedali, ospizi ed opere di elemosina. Hanno contribuito molto all’avanzamento della classe rurale nel Medioevo.

Con l’applicazione dei loro principi spirituali alla costruzione dei monasteri, i Cistercensi hanno impresso all’architettura religiosa un carattere di forza, di grandezza, di semplicità che fortemente ha contribuito alla nascita e allo sviluppo dell’arte gotica così da meritare l’appellativo di missionari dell’arte gotica.

La realizzazione innovativa più sapiente ed efficace dell’Ordine cistercense è consistita, certamente, nell’aver saputo regolarizzare i rapporti tra le abbazie senza ricorrere all’accentramento di Cluny ed evitando, nello stesso tempo, l’assoluto isolamento che condannava tanti monasteri ad un inesorabile declino. Con la compenetrazione del concetto di famiglia, proprio del monastero benedettino, presieduta e diretta dall’abbas (il padre), con quello di chiesa locale, mutuato con profonda intuizione dal N.T., quale componente geograficamente distinta dell’unica Chiesa universale, il nuovo Ordine stilò la prima Carta costituzionale europea di democrazia a partecipazione diretta di tutti gli abati, con la denominazione programmatica di Charta Caritatis, la Carta di Carità, per mettere in rilievo il primato assoluto della fraternità nelle relazioni tra i monasteri.

La Carta di Carità è un originalissimo organismo giuridico escogitato con l’intento di salvaguardare l’autonomia delle singole abbazie e di assicurare l’unità dell’Ordine e l’uniformità della vita monastica. La cura animarum riservata all’abate-padre ed esercitata nella visita regolare annuale all’abbazia-figlia, creava un legame a catena di naturale dipendenza nelle filiazioni che facevano capo a Cîteaux, a La Ferté, a Pontigny, a Clairvaux e a Morimond. Esse formavano le cinque ramificazioni le quali trovavano la loro piena rappresentatività nell’obbligo della partecipazione annuale dei rispettivi abati al Capitolo generale di Cîteaux.

I due pilastri dell’organizzazione dell’Ordine erano la visita annuale dell’abate-padre alla casa-figlia, che stringeva in un legame a tela di ragno tutte le abbazie, e l’obbligo di partecipazione per tutti gli abati al Capitolo generale annuale, organo supremo inappellabile che le rappresentava, ne tutelava l’autonomia, le dirigeva, ne valutava e giudicava le responsabilità penali.

Nella seconda metà del XIV secolo l’organizzazione cistercense si incrinò. L’Ordine risentì del clima generale di progressiva laicizzazione, di esasperato nazionalismo, di tendenza all’accentramento politico che mirava ad eliminare ogni tipo di interferenza, di autonomia, di libertà, di esenzione; soffriva il peso della sua stessa universalità in un’Europa ormai politicamente e idealmente frantumata. Al declino progressivo ed inarrestabile del Capitolo generale di Cîteaux faceva riscontro l’affermazione emergente delle riunioni nazionali e regionali.

Il ’400 segnò per i monasteri il momento più acuto della crisi e l’inizio della rinascita. Le antiche abbazie benedettine, dietro l’esempio degli Ordini monastici di recente istituzione, capirono che era necessario unire le forze e formare federazioni monastiche per evitare ingerenze esterne e, soprattutto, la Commenda che corrodeva, spiritualmente ed economicamente, le abbazie.

All’inizio del ’400 anche le abbazie cistercensi, logorate da fattori politici e sociali, in gravi difficoltà di amministrazione e, per questo motivo, quasi tutte soggette a Commenda, si inserirono in questo rinnovamento, dando origine alle Congregazioni monastiche.

Il movimento di aggregazione, prima avversato dal Capitolo generale, poi tollerato, e talvolta perfino favorito, rivendicava, senza rinunciare ai due cardini giuridici tradizionali, una certa autonomia nell’impostazione interna alle singole Congregazioni, diversa secondo fattori di luoghi e cultura. Le Congregazioni, infatti, erano governate con Costituzioni proprie approvate dalla santa Sede senza, tuttavia, essere avulse dall’Ordine perché riconoscevano l’autorità, almeno morale, del Capitolo generale e dell’abate generale dell’Ordine.

Nel corso dei secoli alcune Congregazioni sono scomparse, vittime di rivolgimenti politici, mentre altre ne sono sorte.

Attualmente l’Ordine cistercense è formato dall’unione di dodici Congregazioni ed è regolato dal Capitolo generale – composto dai rappresentanti delle singole Congregazioni – che ha una potestà legislativa di carattere orientativo e costituisce il supremo grado di appello.

La potestà suprema delle singole Congregazioni risiede nel proprio Capitolo generale ed è esercitata, in via ordinaria, da un superiore chiamato, secondo luoghi e tempi diversi, riformatore, visitatore, vicario generale e, più spesso, abate preside, il quale presiede i Capitoli ed effettua, ordinariamente, le visite ai monasteri congregati. I singoli monasteri sono sottoposti, secondo l’antico principio dell’Ordine, alla visita dell’abbazia-madre che, a sua volta, è sottoposta alla visita dell’abate generale.