L’asana è il seggio che ospita il dio.
E’ lì che il dio viene finalmente a riposare, quando tutto è stato fatto e allora può stare, senza fare più niente.
Quando tutto è tranquillo possiamo sederci con lui al centro del nostro corpo, nel nostro seggio interno. Atha yoga anushasanam, recita lo Yoga sutra, adesso la relazione ha inizio: un dialogo silenzioso, sottile, che passa attraverso la vita interna. Ora tutto è pronto, il rito può incominciare.Il varco
Quando entriamo nell’asana c’è un momento di passaggio, che fa parte anch’esso dell’atto rituale: il corpo e la mente si aggiustano per trovare una sistemazione comoda, da poter mantenere e dalla quale poter osservare, indisturbati, quello che c’è, nella quale poter finalmente sentire in tutta libertà come la vita si vuole manifestare in noi.
Quando ci permettiamo questo, c’è tutta un’intensità vibrante che si rivela, difficile da definire piacevole o spiacevole, è la sensazione stessa di essere vivi.
La fase di assestamento nell’asana, di durata variabile, è importante come la posizione finale che riusciamo a trovare: ugualmente importante da gustare e abitare, anche se sfuggente come l’indefinitezza di un crepuscolo, quando dal giorno si passa alla notte o viceversa. Tutto è incerto, tutto si sta formando, come in una nascita, e proprio per questo è così facile lasciarsi sfuggire questo momento o maltrattarlo come qualcosa che ‘non è niente di particolare’.
Dare valore a tale passaggio sfumato come una mezza stagione, porterà una misteriosa vastità all’asana vero e proprio, perché non avremo tralasciato niente di ciò che sta intorno e ogni piccolo frammento di esistenza siederà con noi ‘sul seggio del dio’.
E’ interessante quindi accompagnare con sollecitudine, senza fretta o ansia di sicurezza questa fase di aggiustamento, “Sii paziente con tutto ciò che è incerto nel tuo cuore”, come consiglia il poeta[1].
Nell’incertezza c’è già in modo sottile tutta la pienezza della posizione completa col vantaggio di non essere distratti dalla sua forma compiuta e appariscente.
Da non dimenticare poi che la perfetta postura yoga è in realtà una non-postura. Il cammino verso la liberazione è isomorfo al riassorbimento cosmico (samhara), affermano gli antichi testi. Proprio allo stesso modo, da quel crogiolo indefinito che porterà a un nuovo ciclo di forme, il corpo arriva alla fine del processo a scomparire nel riposo dell’asana: dimentichiamo il piccolo corpo col quale ordinariamente ci identifichiamo per trovare un’identità più vasta in virtù della posizione ‘seduta’.
Come tutto ciò che si è formato giunge a decomporsi, a ritornare spazio e libertà, così il corpo scompare nell’asana, lasciando in essere la nuda vibrazione dell’esistenza. Il processo dell’asana comprende dunque la fase indistinta di ingresso nella posizione, la sua forma compiuta e stabile e il suo morbido destrutturarsi fino a divenire spazio vivo.
Il divino che è in noi
Nell’India religiosa gli dei abitano il corpo. “Gli dei sono nel corpo come le vacche nella stalla” recita l’Atharva Veda; il corpo, identico alla creazione, è in senso concreto la sede del cosmo.
Esiste dunque una corrispondenza, una geografia mistica del corpo, ogni parte del quale è un pitha, un ‘seggio’ e un tirtha, un ‘guado’ o punto di trascendenza verso l’immensità del creato. Ritroviamo questi ‘luoghi sacri’ sia nel corpo umano sia disseminati lungo la terra d’India come nel corpo di una Grande Madre. In particolare nel corpo umano le divinità ‘locali’ sono raffigurate sedute, potremmo dire ‘nel seggio’, nell’asana. Lo yoga si propone di individuare e risvegliare questi luoghi divini all’interno del corpo e la posizione seduta viene a rappresentare l’attitudine regale: è il riposo della contemplazione, quando ogni gesto è stato compiuto e allora se ne possono gustare i frutti in pace, senza che alcun desiderio o scopo turbino questa pace viva.
Nella concretezza che caratterizza l’azione sacra del rituale indù (puja) il piedistallo o il contenitore della divinità ‘seduta’ divengono essi stessi la divinità per tutta la durata del rito. Allo stesso modo l’asana non è solo il trono in cui il dio prende dimora, ma il corpo stesso del dio. Il divino è proprio in tutto. Potremmo in tal senso definire l’asana quella particolare condizione di equilibrio in cui mente e corpo si rivelano come aspetti diversi di un unico processo, di natura eminentemente psichica e mistica.
Conoscenza e azione
Durante il rituale yogico il corpo diviene kshetra, il campo, lo spazio consacrato nel quale la divinità intesa come coscienza presente e vibrante viene a dimorare per tutta la durata dell’asana e lo yogin diviene in asana il ‘Conoscitore del campo’ (kshetra-jna)[2].
L’asana si configura dunque come la condizione della conoscenza, della ricerca di sé in senso proprio. Secondo i testi tradizionali dello yoga[3] ciò che conduce alla liberazione, a svelarci la nostra natura autentica, è l’unione di conoscenza e pratica, con un lieve vantaggio per l’atto conoscitivo rispetto alla prassi: occorre l’intuizione conoscitiva primaria della nostra origine divina per poterci sedere sul seggio del dio – l’asana – e intraprendere la pratica dello yoga; il percorso vero e proprio si compie però solo attraverso l’azione. La conoscenza fondamentale è inoltre già in nostro possesso, non è qualcosa da dover acquisire all’esterno di noi, è nascosta in noi ‘come il burro nel latte’: dimorando in asana, essa semplicemente si rivela, nello spazio interno del corpo.
Il radicamento, la relazione con la terra che ospita il corpo, è un elemento portante della prassi yogica. La terra che sostiene il corpo in asana diviene simbolicamente il fondamento che sostiene il tempio – se possiamo azzardare un’associazione tra tempio e corpo dello yogin – e quest’ultimo diventa il sostegno dell’attitudine interna che lo yoga induce.
Lo Sthalapurana, antico testo che riporta le norme e i miti all’origine della costruzione del tempio indù descrive l’area di base, le fondamenta sulle quali si ergerà la struttura templare. Il corpo dello yogin, allo stesso modo del tempio, è un mandala, uno psico-cosmogramma, le cui parti ripetono quindi il cosmo stesso, sono il cosmo stesso. L’area di base del tempio è quadrata – come lo è la Terra nella cosmologia indiana – e sostiene il tempio come l’asana sostiene il dio che vi prende dimora durante il rito yogico. Se la terra è l’asana, il tempio situato sulla terra è il corpo dello yogin, che nella tenuta della posizione viene a incarnare il garbhagrha, la cellula matrice o sancta sanctorum, vero centro di tutto il mandala e sede della divinità.
Da questo centro si erge nell’iconografia tradizionale l’axis mundi che collega terra e cielo, come la colonna vertebrale nel corpo dello yogin. Uno dei modi di definire la prassi yogica è in effetti il processo di interiorizzazione che conduce alla ‘coscienza del centro’, di quel luogo segreto e intimo che i testi tradizionali identificano con l’universo stesso. Nei riti descritti dallo Sthalapurana, durante la consacrazione del tempio la divinità ‘si installa’ nella cellula matrice attraverso un rituale complesso, la pranapratistha; allo stesso modo durante il rito yogico dell’asana il corpo dello yogin subisce una trasformazione che lo rende ‘sede divina’: si risveglia in lui una coscienza più vasta, che potremmo chiamare ‘coscienza della totalità’[4].
Con il termine postura yoga si intende secondo tale prospettiva un’esperienza piuttosto articolata che non riguarda esclusivamente né prevalentemente una forma fisica, come prevede l’interpretazione più comune e diffusa di questa esperienza, quanto invece uno stato coscienziale risvegliato, un’attitudine interiore di tale portata che arriva a coinvolgere tutto il nostro essere, incluso il corpo fisico.
Alcune interpretazioni dell’asana
Il raja yoga di Patanjali colloca l’asana al terzo posto in un percorso costituito di otto elementi.
Essi non sono probabilmente da intendersi esclusivamente come una scala progressiva in sequenza, ma piuttosto come otto varchi per accedere all’unica condizione della liberazione in vita (jivanmukti). L’autore e uno dei suoi commentatori più autorevoli, Vyasa, che con ogni probabilità è lo stesso Patanjali, non spendono molte parole per descrivere la posizione yoga: solo tre sutra sono dedicati all’asana[5].
Innanzi tutto ci viene detto che la postura deve essere stabile e confortevole (sthira-sukham). Tale condizione presuppone il raggiungimento di un equilibrio interno tra mente e corpo, saper calibrare con maestria l’impegno fisico, né poco né troppo intenso, affinché la mente si possa stabilire in esso con agio, non distratta da alcunché: niente è fuori, la mente è tutta nel corpo, il corpo tutto nella mente. Questa ricerca, prettamente psichica, ha già in sé la qualità dell’enstasi unificante (samadhi).
Ciò viene confermato dal secondo sutra patanjaliano che tratta della postura in cui si afferma più esplicitamente che l’equilibrio raggiunto tra sforzo e rilassamento dischiude a poco a poco un agio ancora più profondo: la condizione di ananta samapatti, ovvero come commenta Bhoja, l’esperienza dell’infinito.
La percezione del corpo si dissolve in una coscienza allargata, ciò che abbiamo precedentemente chiamato ‘coscienza della totalità’, che supera i confini conosciuti della percezione comune.
Il terzo sutra connota ancor più chiaramente la condizione unificata che accompagna la tenuta dell’asana: lo yogin non è più turbato dalla differenza tra gli opposti (piacevole/spiacevole, ecc.) che caratterizza l’esperienza ordinaria. Niente è escluso, tutto è, senza preferenze, lo spazio dell’asana. Di più: in seno alla coscienza che tutto abbraccia, la forza centrifuga bivalente dei due opposti che trascinano in due direzioni contrastanti, ha come effetto imprevisto l’incremento della stabilità nel centro dell’asana.
Qualche secolo dopo Patanjali, ritroviamo un’interessante interpretazione del termine asana nell’India medievale, in particolare nella tradizione tantrica non duale dello shivaismo kashmiro.
Ecco cosa afferma Kshemaraja, eminente discepolo di Abhinavagupta, nel suo commento agli Shiva sutra: una volta che si è assestato, seduto comodamente nell’asana (asanasthah), lo yogin ‘si immerge nel lago’ di questa coscienza allargata, senza sforzo, come scivolandoci dentro, in uno stato di completo assorbimento che tutto include. Kshemaraja precisa che a questo punto viene abbandonata ogni azione o tecnica specifica e lo yogin si lascia tutto permeare di ciò che – già semplicemente nell’asana – è lo stato psichico unificato proprio della meditazione[6].
Quando questa esperienza avvolge lo yogin anche solo per un istante un grande passaggio è stato compiuto: si è conosciuto qualcosa di nuovo, proprio come quando da bambini si impara a camminare, e il corpo e la mente non lo dimenticano più.
La nuova conoscenza rimane impressa nelle profondità della psiche, pronta a riemergere spontaneamente quando se ne presenterà nuovamente l’opportunità.
Il significato del rito
Il potente impatto dell’asana nella ricerca spirituale dello yogin sta proprio nell’abbandono senza riserve che sopraggiunge, quasi inaspettato, quando l’intento iniziale e lo sforzo di interiorizzazione proprio dello yoga sono stati adeguatamente impostati.
Ma anche l’impostazione iniziale dell’azione fa parte a tutti gli effetti del rito yogico e, proprio in virtù di ciò, partecipa di questa qualità di abbandono.
Non si tratta infatti dell’azione comune che sorge in vista di un obiettivo da dover raggiungere: ha la natura del paradosso, sorge con lo scopo del risveglio e nello stesso tempo è senza scopo, non vuole trovare proprio niente, poiché noi siamo già ‘risvegliati’, siamo già il nostro centro e questo centro è dappertutto, in noi e intorno a noi. Si tratta solo di essere ricettivi a questa realtà. Anzi, a dirla tutta, la sensazione è che l’asana sthira sukha sia una condizione preesistente alla nostra azione: noi semplicemente la scopriamo e vi andiamo a dimorare, ma l’asana ‘è già lì’, potremmo quasi dire malgrado la nostra azione, quale che sia.
In questa prospettiva lo yoga è solo una delle tante opportunità di verificare che nessuna pratica è davvero indispensabile: essere, stare, ‘sedersi’ è già sufficiente. La prassi yogica in senso lato – e l’asana per rimanere al nostro tema specifico – che pur intraprendiamo per risvegliare la coscienza, si presentano dunque come azione fine a se stessa, danzare per il semplice gusto di danzare, pura espressione ludica dell’arte di vivere.
Quando un albero viene reciso alla base, c’è un attimo non prevedibile in cui il tronco rimane come sospeso nell’aria e immobile prima di abbandonarsi alla forza di gravità e al contatto con la terra.
Ugualmente nell’asana lo yogin sperimenta un’imperscrutabile sospensione partecipe, come un distacco dalla condizione conosciuta e ordinaria di percezione delle cose, prima che sopravvenga, non meccanicamente, l’abbandono tra le braccia di una coscienza più vasta. Subito dopo questo sussulto meravigliato dell’anima che si abbandona, si dischiude la dimensione unificata cui allude Kshemaraja. Siamo nella regalità dell’asana, ma questo livello di esperienza non è qualcosa che si possa raggiungere volontariamente, né è alla portata di tutti.
Come in ogni percorso di ricerca interiore noi possiamo in realtà soltanto predisporre le cose, mettere in ordine la nostra stanza e fare pulizia di quello che non serve, ma quando tutto è stato fatto, possiamo solo stare, senza più ricercare un obiettivo qualsiasi, senza più desiderare che arrivi questo o quello.
Nella sospensione aperta c’è già tutto il significato dell’asana come rito. Abbiamo preparato il corpo e la mente e adesso semplicemente, con partecipazione, lasciamo andare, molliamo tutto: in una resa senza condizioni il corpo nell’asana diviene offerta a ciò che è più grande di noi. L’esperienza yoga consiste nel vissuto non stereotipato di questo abbandono partecipe.
Il dischiudersi, dopo questo abbandono, di una coscienza più vasta, cui alludono sia Patanjali sia Kshemaraja non è scontato, né accessibile a ogni ricercatore del profondo, ma è piuttosto un dono che in taluni casi semplicemente accade.
E’ però importante sottolineare che già l’aver predisposto consapevolmente le cose fino a questo punto, con attitudine aperta e non finalizzata, ci permetterà di assaporare la sacralità dell’asana.
Ed è già l’atto di resa, coraggiosa e fidente, verso l’ignoto che fa dell’esperienza yogica un’intuizione conoscitiva, un rito.
L’etimologia del termine yoga ci evoca l’azione di imbrigliare, legare, aggiogare. Questo, come abbiamo visto, è ciò che occorre fare all’inizio: lo sforzo di direzionare l’azione verso l’interiorità, in una attitudine semplificante, anche se fin dall’inizio è presente la gratuità dell’intento.
La radice yam che caratterizza alcuni termini dell’ashtanga yoga di Patanjali (yama, niyama, pranayama, samyama) evoca proprio il controllo, tirare coscientemente le redini della nostra cavalcatura per andare nella direzione voluta senza disperdere le energie altrove.
Ma arriva il momento che yoga diventa inequivocabilmente vi-yoga: tutto si disgrega, si smantella nel senza forma.
Una volta che la posizione è raggiunta, le redini vanno mollate. Non siamo più noi che guidiamo, la prospettiva viene invertita e in questa fase yoga è lasciarsi portare verso qualcosa che non dipende più dal nostro controllo.
Quando questo processo di abbandono profondo si innesca, diremmo quasi spontaneamente, l’asana rituale come sacrificio di sé e offerta diviene a tutti gli effetti celebrazione della vita stessa.
[1] R.M.Rilke: Lettere a un giovane poeta.
[2] Cfr. Bhagavad-gita, 13.1
[3] Ci riferiamo ad esempio a due Upanishad yogiche: Yogatattva (1.5 e 6) e Amrtabindu (1.18-20)
[4] Riprendiamo questa definizione dal linguaggio caro ad un Maestro contemporaneo di yoga in Occidente, Antonio Nuzzo, che nel suo insegnamento, prevalentemente orale, si riferisce in modo inequivocabile alla ‘spiritualità dell’asana’.
[5] II, 46, 47 e 48
[6] Cfr. Shivasutravimarshini di Kshemaraja. In particolare il sutra III, 18. Raffaele Torella sta per pubblicare una nuova edizione degli Shiva sutra con il commento di Kshemaraja con la casa editrice Adelphi.