Brolesi – Santa Lucia del ’41, quando “Ciccio” s’inabissò
Cronaca Regionale

Brolesi – Santa Lucia del ’41, quando “Ciccio” s’inabissò

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Figlio di don Nino Ricciardo Rizzo – un Rizzu – e di Giuseppa Incognito, il primo “incascittaturi ‘i limuna”, mentre lei la si vedeva spesso “o lavanaru” con il cufino zeppo di panni e lenzuola – di altri – alla ricerca della pietra migliore dove lavarli e poi stenderli sui biancospini.

Era nato a Brolo il 21 giugno del 1918. Aveva otto fratelli.

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Di certo a Brolo pescatori e “limunari” non vivevano negli agi, si faticava, erano l’ultimo anello dell’economia del paese, e lui stesso era diventato, da ragazzo pescatore come il nonno, vedendo anche morire due suoi giovani fratelli, nelle acque antistanti lo scoglio, tirando con “‘u uzzareddu” le reti.

Una famiglia, quella dei Ricciardo Rizzo, che lavorava onestamente, ma duro, che si univa a tavola la domenica, che andava a Messa, giocava a tombola per Natale e che non si piangeva mai addosso anche nei lutti che la travagliavano.

Altri due figli di Donna Giuseppa, erano morti in incidenti domestici e lei si preparava a piangere anche dopo Francesco Salvatore, quella di Giovanni, il più grande, morto anche lui in divisa in un ospedale da campo, sui Peloritani.

“Ciccio” non era fascista, conosceva poco di quella Patria che lo avrebbe chiamato in divisa per servirla, Roma era sono un ricordo scolastico anche se di sabato pomeriggio essendo avanguardista, con gli altri coetanei, faceva il cosiddetto “esercizio pre-militare obbligatorio” in uno slargo del paese sotto lo sguardo dell’ ingegnere Pietro Gembillo

Era un ragazzo bellissimo – ripeteva sempre sua madre –  né vizi, né arroganze, solo le sigarette, quelle con le cartine, fatte in fretta, prima di andare al cinema, o a vedere lo spettacolo di “Brakmen” l’illusionista o le magie di “Popò”, tra i pochi svaghi  di un paese dalle vie ancora non asfaltate e le saie che ne tagliavano i quartieri; la farmacia vicina alla chiesa, don Arturo con la rivendita di stoccafisso in centro, e la pompa di benzina “Lui” di don Giovanni Manciasciuttu dove ore c’è piazza Mirenda.

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Francesco Salvatore Ricciardo Rizzo abitava al Castello, nei bassi del quartiere storico e non conobbe mai l’alloggio delle case popolari che andarono a occupare i suoi nel 1949.

Il 10 giugno 1940 l’Italia era appena entrata nella seconda guerra mondiale, si era alleata con Germania, e lui, essendo abile al servizio militare, ricevette, come tanti,  la cartolina “precetto di arruolamento” e venne destinato alla Marina.

Diventò così adulto all’improvviso e con il fratello, indossò la divisa, salutò gli amici, lasciò la sorella Elvira far il giornino per il corredo, baciò il più piccolo tra i fratelli, Emanuele, consolò la giovane moglie Giuseppa Mangano ancora con in braccio la figlia Pina e in attesa della secondogenita Antonietta, che lui non conobbe mai,  baciò la madre e si raccomandòcon la sorella Antonia di badar a tutto. Quindi si imbarcò.

Pareva sorridere, ironizzava, anche per mascherare la paura … tanto so nuotare .

Salì a bordo dell’incrociatore leggero “Alberico Da Barbiano” della classe “Alberto Di Giussano”.

Era marinaio del Re

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La “sua” nave solcava il Mediterraneo, agiva come copertura a distanza per convogli truppe e rifornimenti diretti in nord Africa.

Il 12 dicembre 1941 dopo aver imbarcato – in maniera insensata – in coperta sulla poppa duecentocinquanta fusti di benzina ed alcuni fusti di olio, destinati all’esercito italiano in Africa, la “Da Barbiano” lasciò il porto di Palermo. Con lei, in navigazione, c’era anche la sua nave gemella l’“Alberto Di Giussano”, e dietro la torpediniera “Cigno”, che faceva da scorta.

La missione era quella di rifornire di carburante gli aerei a Tunisi, portare le munizioni ed i viveri per le truppe che erano attestate nel deserto libico, ma anche le lettere per i soldati, medicine e chinino per chi aveva preso la malaria.

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Avrebbero imbarcato anche dei commilitoni feriti per riportali in Patria, ma non ne abbero il tempo.

Il convoglio era a largo di Capo Bon nella notte del 13 dicembre 1941, il “Da Barbiano” venne intercettato a due miglia e mezzo dalla costa dai cacciatorpedinieri Legion, Maori e Sikn (inglesi) e dal quello battente bandiera olandese Isaac Sweers.

Venne colpito a prora da un primo siluro. Saltò alla dinamo, la nave resto ferma, al buio, per inerzia si muovea sulla rotta già segnata, un bersaglio facile.

Poi un secondo siluro tagliò di netto un terzo della nave verso poppa.

La benzina, nei fusti, prese fuoco immediatamente.

Le fiamme avvolsero immediatamente la nave che affondò alle 4,22 in meno di cinque minuti.

I morti furono 534 su 784 uomini che componevano l’equipaggio. Lui, il marinaio brolese, venne contato tra i 456 considerati dispersi.

E mentre si inabissava con i suoi camerati,  un altro siluro colpiva l’incrociatore “Di Giussano” che navigava in quei pressi.

Una falla troppo grande per evitare l’affondamento che avvenne in un paio d’ore permettendo a molti militari imbarcati di salvarsi.

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Una tragedia.

I genitori non ebbero neanche la salma per piangerlo. Né una medaglia, né un pensione, nulla che lo commemorasse.

Rimane un “ricordo” familiare, un racconto per i nipoti, alcune fotografie, i fogli dei giornali dell’epoca che lo annoveravano tra le vittime di quell’affondamento e le foto dell’incrociatore che affonda con tutti gli uominbi dell’equipaggio sulla tolda a salutare.

Poi la sua storia divenne “pubblica” solo quando alla fine degli anni novanta, Brolo si ricordò dei suoi tanti figli dispersi in guerra, inghiottiti dalle acque e dedicò loro una tardiva Ancora a memoria futura.

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Aveva 23 anni.

Ci piace rivederlo, con il pensiero,  vederlo impegnato in combattimento, poi mentre accorreva nei locali caldaie e, nonostante il forte sbandamento dell’unità, già silurata mortalmente, nel buio della notte, già presagio del peggio, che, continuava a prodigarsi con prontezza per aiutare i compagni feriti a venir fuori da quei locali invasi da vapore e fumi compiendo sino all’ultimo il suo dovere di soldato e marinaio, per poi  inabissarsi nelle acque di un mediterraneo, che oggi ancora accoglie e abbraccia mortalmente altri vittime di guerra, esuli e naufraghi che chiamiamo migrantes.

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Preghiera del Marinaio

A Te, o grande  eterno Iddio,

Signore del cielo e dell’abisso,

cui obbediscono i venti e le onde, noi,

uomini di mare e di guerra,Ufficiali e Marinai d’Italia,

da  questa sacra nave armata della Patria leviamo i cuori.

Salva ed esalta, nella Tua fede, o gran Dio, la nostra Nazione.

Dà giusta gloria e potenza alla  nostra bandiera,

comanda che la tempesta ed i flutti servano a lei;

poni sul nemico il terrore di lei;

fa che per sempre la cingano in difesa petti di ferro,

più forti del ferro che cinge questa nave,

a lei per sempre dona vittoria.

Benedici , o Signore, le nostre case lontane, le care genti.

Benedici nella cadente notte il riposo del popolo,

benedici noi che, per esso, vegliamo in armi sul mare.

Benedici!

La “Preghiera del marinaio” viene attualmente letta, oltre che prima dell’ammaina bandiera in navigazione, anche al termine delle messe a bordo, nelle caserme e negli stabilimenti della marina e alla conclusione delle funzioni religiose celebrate in suffragio di marinai deceduti.

 

 ANCORA DA LEGGERE

4 novembre a Brolo – Carmelo Giuffrè e gli altri

Brolesi, tra Eroi, Caduti e Reduci. Brolo ricorda così. L’amministrazione pone una corona al monumento della grande Guerra … per non dimenticare i soldati morti nei grandi conflitti mondiali, e quelli di oggi che cadono nelle guerre dimenticate e nelle “missioni” di Pace.

Carmelo Giuffrè, un nome tra i tanti Caduti, “ucciso dalla mitraglia”.

Lui, non sui monti di Trento, come cantava De Andrè, ma sulle spianate di Monte Rosso Almo, nel luglio del 43.

Aveva 31 anni, era un soldato del regio esercito, aveva lasciato la famiglia, quattro fratelli, ora restano nipoti e pronipoti a portare il suo nome in ricordo di uno zio mai conosciuto.

Brolesi, come tanti tanti reduci, molti morti, combattendo, decorati, eroi senza fanfare, popolani – sopratutto quelli della prima guerra mondiale – mandati a morire come i bifolchi, carne da macello, nelle trincee del Carso o come – anni dopo – Giuseppe Micalizzi – classe 1909 – deceduto nel 1944 e rimasto ad Amburgo, sepolto nel cimitero militare italiano d’onore (riquadro 5 fila n. tomba 15).

In tanti – tra il 1915 ed il 1918 – salirono sulle “tradotte”, con le vesti che sapevano di sale, di mare e di limoni.

Venivano da questo borgo marinaro per morire, combatte, andare all’assalto, sui campi e nelle trincee del trentino e del veneto.

In 21 non fecero più ritorno, altri – chi era tornato a casa magari senza una gamba – si vedevano, sino ai primi anni ottanta, anche nelle bettole, a raccontare della guerra con i loro nastrini attaccati al bavero, le croci di Vittorio Veneto, sempre lustrate.

Erano “i nonni” della guerra.

Un vitalizio, una cicatrice da mostrare, il cappello piumato impolverato sull’armadio, la divisa logora da indossare in giornate come oggi.

Per ricordare chi non è tornato ora c’è una lapide, sul monumento del “militare assorto”.

Una lapide e dei nomi oggi onorati da Irene Ricciardello, il sindaco del paese, Giuseppe Miraglia, il presidente del consiglio comunale e dall’onorevole Nino Germanà che qui hanno deposto una corona di alloro portata dai vigili urbani.

I brolesi Caduti della Grande Guerra sono Vincenzo Agostino Gasparo, Antonino Busacca, Gennaro Caruso, Basilio Castrovinci, Natale Catania, Antonio De Luca Cardillo, Carmelo De Luca Cardillo, Antonino Aliberto, Antonio Gentile, Giuspepe Gentile, Paolo Giuliano, Vincenzo Magistro, Basilio Mancuso, Costantino Merenda, Gaetano Onofaro, Carmelo Ricciardello, Cono Speziale, Basilio Starvaggi, Calogero Terranova, e Carmelo Tripi.

Tanti cognomi noti, identificabili con le famiglie di chi ancora vive a Brolo, altri che non esistono più nell’anagrafe del paese.

Anche questa è storia.

Loro dovevano avanzare sotto il fuoco nemico, per conquistare città in cui nessuno era mai stato e montagne che nessuno aveva mai sentito nominare.

C’era da difendere una “terra italiana”, palmo a palmo, per impedire che gli austriaci se la riprendessero tutta.

Difendere quella che era difficile definire “la loro” terra.

Oggi quei fanti – ovviamente – non ci sono più.

La memoria diretta della Grande Guerra si è spenta per sempre.

Resta una data, come oggi, per ricordarli.

Ricordare uomini.

Ma è un ricordo che vale anche, se non soprattutto, per chi restava a morite sotto i bombardamenti, per i bambini schiacciati dalle jeep americane, come il piccolo Santo Campo, e delle donne.

Quelle che restavano e che vedevano partire padri, fratelli, mariti.

Le donne rimaste a casa che dimostrarono di saper fare i lavori «da uomo».

Forse una prima fase dell’emancipazione degli anni che poi verranno.

Le donne brolesi, quelle che portarono il lutto per sempre.

E come tutte le guerre anche quelle combattute dai “brolesi” ha i suoi piccoli eroi

Ma sono uguali a tutte quelle raccontante, da chi le ha viste e vissute.

Una discesa agli inferi.

I diari, le lettere, le cartoline conservate ancora restituiscono una sofferenza che oggi non riusciamo neanche a immaginare che parlano di assalti inutili, delle decimazioni impartiti da generali idioti, di miserie umane, di paura.

E questo che l’amministrazione comunale, deponendo ORA la corona d’alloro ha voluto ricordare e testimoniare.

Ma deve essere anche il ricordo di chi tornò, dalla fronte Greco Albanese nell’anno di guerra del 43.

Una lapide li ricorda nella Chieda Madre.

Vollero una statua a Santa Rita alla quale si “rivolsero cercando protezione”.

Fecero poi una sezione di “Combattenti e Reduci”, sulla Nazionale, ed anche una lista “Elmetto” – senza fortuna nelle amministrative del dopoguerra – per dare spazio a idee, proposte e concretizzare aspettative.

Brolo non diede loro credito.

Tornarono dai Balcani: Rosario Scaffidi Militone, il sottotenente poi insignito di una croce di guerra e della medaglia al valor militare per quanto fatto al fronte, in Africa orientale.

Onorificenza spettata anche a Giuseppe Baudo, altro decorato di guerra – una medaglia d’argento ed una via per ricordarlo – come avvenne per un altro sottotenente, Giuseppe Mirenda, morto da eroe sul fronte Russo (anche se molti dicono che sia morto in un campo di concentramento russo, dove, ferito, venne deportato) al quale venne dedicata l’attuale che porta il suo nome, una volta piazza Nasi.

mirendaTra quei reduci, sulla lapide, spiccano i nomi di Antonino Scaffidi Militone, del brigadiere Carmelo Marino, dei graduati, tra caporali, artiglieri, e soldati di Antonino Ricciardello, Antonino Sapienza, Francesco Scaffidi, Antonino Buttà, Nunzio Lavena, Natale Cipriano, Antonino Catania, Antonino Vizzari, Antonino Maniaci, Salvatore Gentile, Vincenzo Calderaro, Giovanni Scaffidi Mangialardo, Antonino Ricciardello, Francesco Calderaro, Michele Dimunnu, Salvatore Toscano, Salvatore Cardaci, Basilio Caruso, Vittorio Fabbiano, Cono Merenda, Carmelo Giuffrè, Gaetano Mancuso, Rosario Ricciardello, Salvatore Gasparo, Cono Bonina, Francesco Rifici, Teodoro Lo Biondo, Pietro Insana, Pietro Laccoto e Basilio Agnello,

Ma è un l’elenco di nomi che si allunga.

Perché Brolo ha dato il suo consistente contributo alla “Patria” di sangue e dolore anche nella seconda guerra mondiale.

In quell’elenco annoveriamo, sicuri comunque di dimenticarne qualcuno. chi ha avuto onori e medaglie – consegnate alla memoria a figli e nipoti  – quando venne inaugurato il monumento ai “Cadute del mare”, voluto dall’amministrazione comunale del tempo, guiodata da Basilio Germanà. In quell’elenco c’erano i nomi di Giovanni Giuffrè, Calogera Salvatore Barà, Giuseppe Lacchese, Giuseppe Bruno, Pietro Ceraolo, Francesco Rizzo Ricciardi, Antonino Natoli Timpirino, Nicolò Bongiorno, Carmelo Perdicucci, Francesco Scaffidi Militone, Giuseppe Micalizzi, Salvatore Mendolia e Giovanni Scaffidi Mancialardo.

Età media 23 anni.

Tutti eroi senza fanfare.

 

E ripubblichiamo un estratto dell’articolo dedicato al

Sottotenente Giuseppe Mirenda morto sul fronte russo.

Lui era stato anche designato per aver assegnata la medaglia d’oro, per la sua morte eroica, ma poi il provvedimento venne declassato e ricevette, alle memoria, la medaglia d’argento (a Brolo altre onorificenze militari spettarono a tanti come a Giuseppe Baudo, medaglia d’argento ed Saro Scaffidi Militone medaglia di bronzo).

Mirenda faceva parte del XIV battaglione ed era il comandante del plotone dei guastatori posto a difesa di un importante e stategica posizione sul fronte russo.

B8itICwBWkKGrHqRiEzLW0g01vBM3Ww3mwEQ_35Benché attaccato “da soverchianti forze nemiche – si legge nell’atto di consegna dell’onorificenza – riusciva a tenerle in scacco per molte ore.

Accerchiato continuava a battersi con estremo vigore quindi contr’assaltava audacemente l’avversario riuscendo a aprirsi un varco.
Caduto presso di lui il fiammere impugnava agli stesso il lanciafiamme e alla testa dei suoi valorosi infliggeva gravi perdite al nemico finchè colpito mortalmente cadeva sul campo della strenua lotta.

Caposaldo n.4 fronte russo 15 dicembre 1942”.

– Decreto 7 agosto 1948 registrato alla Corte dei Conti il 27 agosto 1948 Esercito registro 18 foglio 330 Ricompense al Valor Militare – Conferimento Medaglia d’argento al Valor Militare alla memoria al sottotenente Mirenda Giuseppe da Brolo (Messina) –

 

Help.

Reperire fonti e foto per ricostruire pezzi di storia di Brolo non è sempre facile.

Così se si vuole collaborare ad integrare quest’articolo con nomi mancanti o dire altro sulla storia di Brolo, la redazione accoglierà ogni proposta, suggerimento e commento.

redazione@scomunicando.it

 

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Le ultime ore della Da Barbiano

Tra il 9 e il 10 dicembre

Dopo aver caricato a Palermo circa 100 tonn. di benzina in fusti, Da Barbiano e Di Giussano lasciarono Palermo alle 17,20 e seguendo una rotta che passava a ponente di Marettimo, puntarono a sud verso le coste africane.

Il mare grosso da nord-ovest e la notte piuttosto fosca lasciavano sperare che la navigazione non sarebbe stata turbata da avvistamenti da parte nemica. Invece la formazione fu presto avvistata da ricognitori che la seguirono segnalando a Malta ogni suo movimento.

Alle 23,00 intanto era sorta la luna che con la sua luce favoriva i velivoli avversari che si mantenevano nel cielo delle nostre navi.

Alle 23,55, considerato che ormai era mancata la sorpresa, che il nemico era in allarme, come poteva presumersi dato il suo intenso traffico RT, che il mare era in aumento e avrebbe causato ritardi nell’orario di marcia esponendo più a lungo le nostre navi alla probabile offesa nemica, l’Ammiraglio Toscano ordinò alla Divisione di invertire la rotta e tornare a Palermo.

Giunte di nuovo in prossimità di Marettimo, alle 03,30, i due incrociatori subirono infatti un attacco di aerosiluranti che fu sventato manovrando.

Le unità rientrarono a Palermo alle 08,20 del giorno 10.

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10-11 DICEMBRE 1941 – TRASFERIMENTO DEL “BANDE NERE” A PALERMO

 

Il Bande Nere, che il giorno prima aveva eseguito giri di bussola presso la diga foranea, cessando di essere sede del Comando della Forza navale Speciale, lasciò La Spezia alle 16,25 del 10 dicembre e giunse a Palermo, dove riprese il suo posto nella IV Divisione, alle 15,05 dell’11.

La sera stessa il Bande Nere caricò viveri e benzina in fusti (circa 500 tonn.).

La sua partenza per la Libia assieme alle altre due unità della Divisione, fissata per il giorno 13 venne rinviata di 24 ore essendosi verificata una infiltrazione di acqua di mare nel condensatore principale di prora.

Dopo l’affondamento degli altri due incrociatori, la missione per il Bande Nere verrà definitivamente annullata.

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12 DICEMBRE 1941 – NUOVA PARTENZA PER LA LIBIA DEL “DA BARBIANO” E DEL “DI GIUSSANO”. – AFFONDAMENTO DEI DUE INCROCIATORI 

 

Già dai primi di dicembre, sempre per l’urgenza di rifornire le truppe italo-tedesche in Libia, Supermarina aveva progettato una vasta operazione intesa a far giungere a Bengasi, contemporaneamente, tre convogli composti complessivamente, di sei piroscafi, con la scorta diretta di 12 cacciatorpediniere e indiretta di 2 corazzate, 5 incrociatori e 9 cacciatorpediniere; oltre queste imponenti forze un altro gruppo composto dalle due corazzate da 35.000, 4 cacciatorpediniere e 2 torpediniere doveva prendere il mare per appoggiare l’operazione nel caso di incontro con superiori forze nemiche.

Nonostante il massiccio spiegamento di forze l’operazione – denominata M 41 – non ebbe l’esito desiderato perché Supermarina, in possesso di informazioni non esatte circa la presenza in mare di una grossa formazione inglese, comprendente corazzate e incrociatori, diretta da Alessandria verso ponente (in realtà si trattava solo di 4 incrociatori leggeri) preferì sospendere l’operazione; ciò non evitò, nella rotta di rientro, il danneggiamento per siluramento della corazzata Vittorio Veneto e la perdita di due piroscafi che il giorno precedente la partenza del convoglio navigavano diretti a Taranto per riunirsi con le altre navi.

La protezione aerea del convoglio nella zona di arrivo avrebbe dovuto essere garantita dalle forze dislocate in Libia ma, queste erano tanto a corto di carburante da non poter assicurare che qualche sporadico volo. Occorreva quindi che, prima dell’arrivo del convoglio sulle coste libiche, le basi aeree fossero rifornite di benzina ed è per questo particolare motivo che il 13 dicembre, nonostante l’avaria del Bande Nere, fu sollecitata nuovamente la partenza degli altri due incrociatori della IV Divisione carichi dei fusti di benzina già imbarcati in occasione della prima fallita missione del 9-10 dicembre.

Il Da Barbiano e il Di Giussano, scortati dalla torpediniera Cigno uscirono da Palermo alle 18,30 del 12.

Il carico principale: 100 tonn. di benzina, 250 di gasolio e 600 di nafta, anziché nelle consuete lattine a chiusura ermetica usate per i trasporti con le unità da guerra, era in fusti che, non essendo a chiusura stagna, erano stati sistemati in coperta; le due navi imbarcarono inoltre 135 ufficiale e militari del CREM destinati a Tripoli.

Per cercare di sottrarre le navi alle ricognizioni aeree, Supermarina aveva ordinato alla formazione di passare molto a nord-ovest delle Egadi per poi puntare su Capo Bon e quindi costeggiare la Tunisia sempre mantenendo la velocità di 23 nodi.

Prima della partenza delle navi da Palermo alle 15,45 del 12, un velivolo da ricognizione del 51° Gruppo, aveva avvistato, al largo della costa algerina, 4 cacciatorpediniere avversari diretti verso levante alla velocità stimata di 20 nodi. Le quattro navi erano il Sikk (C.V. Stokes), il Maori e il Legion inglesi e l’Isaac Sweers olandese; avevano lasciato Gibilterra l’11 dicembre ed erano diretti a Malta da dove avrebbero dovuto proseguire per Alessandria. Alle 16,45 lo stesso velivolo ripeteva l’avvistamento confermando “nessun cambiamento nell’avvistamento precedentemente segnalato”.

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Con questi dati Supermarina fu calcolato che se i 4 C.T. avessero continuato a navigare a 20 nodi, sarebbero giunti al traverso di Capo Bon dopo le 06,00 del giorno 13, mentre se avessero aumentato subito la loro andatura a 28 nodi, velocità considerevole per un trasferimento, vi sarebbero giunti verso le 03,00.

A quell’ora, se i nostri incrociatori avessero mantenuto la velocità a 23 nodi, sarebbero stati a circa 20 miglia oltre Capo Bon.

Per questo motivo, fidando su questo vantaggio non molto sensibile e dato che era urgente ed indispensabile far giungere il carburante in Libia, l’operazione non fu rinviata.

L’Ammiraglio Toscano, Comandante della divisione, sul Da Barbiano, ebbe notizia dell’avvistamento perché il messaggio di scoperta del Cant Z, ritrasmesso dalla stazione radio di Cagliari, fu intercettato dal servizio RT della nave.

Non altrettanto sembra sia accaduto al comando del Di Giussano perché la nave, ancora in porto, non aveva aperto l’ascolto.

Vi fu, evidentemente, da parte di Supermarina, una poco appropriata valutazione della situazione. Nota la certa presenza in mare di una formazione avversaria con rotta collidente con quella che dovevano percorrere i nostri incrociatori, fra l’altro menomati, nella loro efficienza bellica dal carico trasportato, si poteva, non già annullare  l’operazione la cui effettuazione era ritenuta indispensabile, a me di rimandare tutta la progettata operazione M 41, ma prendere alcune precauzioni che, (naturalmente ragionando con seno del poi) dovevano essere evidenti, quali rinforzare la scorta avanzata che fu invece affidata alla sola torpediniera Cigno, sfruttare la velocità degli incrociatori per abbreviare la traversata del Canale di Sicilia, rendere edotto della situazione il Comando Divisione perché fosse preparato alle eventualità di un incontro, abbreviare il percorso Egadi-Capo Bon senza fare la deviazione a nord-ovest che allungò la navigazione di oltre due ore e non servì ad evitare l’avvistamento da parte della ricognizione avversaria, se già alla sera del 12 i due incrociatori furono scoperti da un ricognitore “Wellington” che ne segnalò i movimenti a Malta ed alla Squadriglia di cacciatorpediniere anglo-olandesi.

Il calcolo che dava come risultato lo scarto di un’ora nell’incrocio fra le due rotte risultò fallace perché la Squadriglia “Sikk” appena avuta notizia della presenza in mare delle nostre navi, aumento la sua velocità a 30 nodi riguadagnando il breve lasso di tempo che la separava dalle nostre navi.

La navigazione della nostra formazione avvenne senza incidenti fino alle 02,45 del 13. Le navi marciavano a 23 nodi con la Cigno in testa a circa 2000 metri dal Da Barbiano seguito dal Di Giussano.

Alle 21,45 Supermarina segnalò al Da Barbiano “Possibile incontro con piroscafi in uscita da Malta – Nessun piroscafo nazionale aut francese su vostra rotta”. Alle 23,15 le unità mandarono la gente a posto di combattimento.

La navigazione continuò ancora indisturbata e tranquilla nella notte molto buia, nonostante fosse già sorta la luna, a causa dell’annuvolamento partico9larmente intenso all’orizzonte; l’acqua aveva però una notevole fosforescenza che descriveva attorno alle navi una zona di visibilità.

Quando la luna superò la cortina nuvolosa tutto l’ambiente si fece chiaro.

Alle ore 02,10 fu battuto il posto di combattimento generale.

Nell’assetto di combattimento notturno le navi avevano i cannoni carichi metà a granata e metà a palla e i motori di brandeggio in moto.

Nelle riservette interne agli scudi dei complessi da 100/47 vi erano 8 colpi illuminanti e 2 a granata per pezzo. In particolare risulta che sul Di Giussano per aumentare la celerità dell’intervento, i pezzi da 100/47 erano stati dotati di cartucce a prima carica V.R.: (vampa ridotta) metà con codetta luminosa e metà senza; i colpi illuminanti erano invece pronti all’impiego, in numero di 24, in una riservetta presso il complesso da 100/47 n. 3.

Tutte le mitragliatrici avevano, oltre la normale dotazione, 8 caricatori di riserva pronti presso le armi.

Alle 02,45, a circa 7 miglia da Capo Bon, fu distinto, chiarissimo, il rumore di un aereo che sorvolava la formazione a bassa quota.

La Cigno segnalò con il Donat “Aerei sul mio cielo”.

Dopo pochi minuti le navi che erano giunte a circa 2 miglia dal faro di Capo Bon, accostarono per 157° per scapolare il Capo tenendosi a poco più di un miglio dalla costa ed entrando nel settore oscurato del faro che fino ad allora le aveva illuminate a tratti.

Da quel momento, erano le 03,15, le navi avrebbero dovuto riprendere la rotta 180° costeggiando la Tunisia, quando all’improvviso il Da Barbiano accostò a sinistra fino a invertire la rotta, seguito per contromarcia da Di Giussano che a fine accostata risultò alquanto scartato sulla dritta dell’incrociatore che lo precedeva.

La Cigno che era in testa, non avendo ricevuto l’ordine e non essendosi accorta della manovra degli incrociatori, proseguì sulla rotta 180° fino alle 03,25, quindi accostò anch’essa trovandosi così in coda alla formazione e molto distanziata.

Il motivo dell’improvvisa inversione di rotta ordinata dall’Ammiraglio Toscano non è stato mai chiarito dato che l’Ammiraglio e tutti i componenti del suo Stato Maggiore scomparvero quella notte.

Può essere che la certezza di essere stati ormai avvistati dagli aerei che avevano sorvolato la formazione, abbia fatto maturare nell’Ammiraglio la decisione di tornare indietro per non esporsi agli attacchi che sarebbero certamente stati lanciati contro di lui, ma in questo caso sarebbe stato più logico assumere la rotta verso le Egadi per abbreviare il percorso e non verso nord-ovest. Può essere anche che l’inversione di rotta fosse un espediente per disorientare il ricognitore, se ancora era in volo sul cielo della formazione, sulla reale rotta delle nostre navi, per poi riprendere il cammino verso Tripoli non appena si fosse allontanato.

In ogni caso la misteriosa manovra non abbreviò che di pochi minuti l’incontro con i cacciatorpediniere avversari.

Questi ultimi, anziché navigare a 28 nodi, come era nelle ottimistiche previsioni del nostro Stato Maggiore, già dal tramonto del 12, non appena ricevuta la comunicazione di scoperta dal ricognitore “Wellington” che aveva avvistato la nostra formazione dopo le Egadi, stavano navigando a 30 nodi per non mancare l’incontro con le nostre navi delle quali avevano previsto, con esattezza e fortuna, rotta e velocità che era poi quella segnalata con altrettanta esattezza dal “Wellington”.

Alle 03,00 del 13 i cacciatorpediniere erano già in vista di Capo Bon e delle unità italiane che in quel momento stavano doppiando il Capo.

Per qualche minuto la massa del Capo nascose il Da Barbiano ed il Di Giussano, alla vista dei cacciatorpediniere inglesi, poi, doppiato anche essi il Capo tenendosi molto sotto costa per confondersi con essa, la nostra formazione riapparve loro mentre invertiva la rotta e si avvicinava rapidamente.

Il Sikk, che conduceva la formazione, si tenne ancor più sotto costa per defilare contro bordo ai nostri incrociatori, seguito dall’Isaac Sweers, il Maori ed il Legion seguirono una rotta leggermente più allargata che li portava più vicino alle nostre navi. L’azione fu brevissima; il Sikk da 1000 metri lanciò 4 siluri sul primo incrociatore, il Da Barbiano, e ne mise due a segno; anche il Legion poco dopo lanciò tutti i suoi siluri contro il Da Barbiano mettendone a segno uno, mentre un altro, mancata la nave di poppa, andò a colpire il Di Giussano che lo seguiva e ne era parzialmente coperto non trovandosi esattamente in linea di fila, il Maori lanciò e sparò contro il Di Giussano, l’Isaac Swers si limitò a tirare con le sue artiglierie.

Mentre i CT inglesi si allontanavano dalle nostre navi mortalmente colpite, incontrarono la Cigno che tagliò la loro formazione, lanciò un siluro contro la nave più vicina e sparò a dritta e a sinistra contro le unità nemiche che defilavano velocissime. Poi le navi inglesi si allontanarono dalle acque dove avevano ottenuto una così fortunata e rapida vittoria e giunsero a Malta come era previsto.

Il Comandante Stokes fu decorato dell’Ordine del bagno “onorificenza inconsueta per un ufficiale del suo grado” dice Cunningham nelle sue memorie.

Sul Da Barbiano l’avvistamento del nemico avvenne quasi subito dopo l’accostata, ad opera del terzo DT, sulla controplancia. Subito dopo le unità nemiche furono anche avvistate dall’Ammiraglio e dal suo Capo di Stato Maggiore, Capitano di Vascello giordano in plancia ammiraglio. Gli ordini dati in successione furono: di aumentare alla massima forza, di trasmettere l’ordine “Vela 30” (velocità 30 nodi) al Di Giussano e infine di aprire il fuoco, dato per portavoce della plancia comando, sottostante a quella ammiraglia e per RT al Di Giussano.

Mentre si susseguivano questi concitati ordini il Sikk, giunto al traverso del Da Barbiano, defilando, di contro bordo e sparando con le mitragliere, aveva lanciato i suoi siluri.

Nella relazione del T.V. Raiani, aiutante di Bandiera dell’Amiraglio Toscano, si legge ““Dopo qualche istante il C.S.M. ha gridato nel portavoce “ha lanciato. Tutto a sinistra” ripetetendo ancora “aprite il fuoco”.

“L’unità ha accostato un poco a sinistra ma subito è arrivato il primo siluro a prora a sinistra determinando un primo sbandamento. Intanto tutta la nave era investita da un furioso fuoco di mitragliere e le codette luminose dei proiettili erano visibilissime. Subito dopo è arrivato un secondo siluro e numerosi colpi a bordo che hanno fatto esplodere il carico di benzina determinando un gigantesco incendio che avvolgeva tutta la nave. Il terzo siluro è giunto dopo brevi istanti.

“frattanto continuavo il furioso fuoco delle mitragliere e dei cannoni. Varie scariche hanno investito la plancia i cui vetri sono andati in frantumi. Una di esse ha colpito in pieno il C.V. Giordasno che ho visto abbattersi sul pagliolato. Non ho avuto l’impressione che l’ammiraglio fosse stato colpito perché egli è rimasto immobile nell’angolo sinistro della plancia””.

Il primo siluro aveva colpito il Da Barbiano verso prora all’altezza delle torri da 152, il secondo lo colpì al centro mettendo fuori uso le macchine e provocando la falla più grossa, il terzo lo colpì più a poppavia.

La nave fu messa immediatamente fuori combattimento perché mancò immediatamente l’energia e iniziò subito lo sbandamento. Soltanto le mitragliere di sinistra ebbero la possibilità di sparare qualche colpo prima che i colpi di mitragliera nemici, che spazzavano la coperta causando numerose perdite tra il personale che era alle armi, facessero esplodere i bidoni di benzina.

Mentre la gente cercava di mettersi in salvo, la nave sbandava sempre più rapidamente tanto che molti che si gettarono in mare per ultimi dissero, nelle loro relazioni, che la coperta era quasi verticale.

In pochi minuti il Da Barbiano si capovolse e affondò. Sul punto dell’affondamento continuò ad ardere un gran rogo che non si spense che al mattino; molti di coloro che si gettarono per ultimi non riuscirono ad allontanarsi dalla zona in fiamme.

Se il Da Barbiano non sparò neppure una salva prima di essere colpito, fu forse per un momento di esitazione del C.V. Rodocanacchi comandante della nave, perito anch’egli in quella notte, che temeva che l’ombra improvvisamente apparsa sulla sinistra fosse la Cigno. Una comprensibile esitazione perché al rapidissimo corso di quegli avvenimenti, e di notte, era difficile avere subito una visione esatta della situazione.

Se la Cigno avesse eseguito l’accostata ad un tempo assieme agli incrociatori, in quel momento avrebbe potuto trovarsi in quella posizione per riprendere il suo posto in testa alla formazione.

“Ho sentito che il Comandante Cavallini, 1° DT, riferiva al Comandante Rodocanacchi che le torri erano pronte, cariche e in punteria”, dice il G.M. Niccolini nella sua relazione “ma non si sparò”.

““Il Comandante Ghiselli urlò “perché non si spara?”.

Il Comandante Rodocanaccchi era attaccato al portavoce che comunicava con l’Ammiraglio e gridava “Sopra! Ammiraglio!”. In quel momento giunse il siluro””. Nelle torri il claxon d’allarme era suonato alle 03,30 circa e il personale era tutto al suo posto pronto a far fuoco. Dice il T.V. Maniscalco, 2° D.T.: “Ho fatto subito seguire la punteria alla torretta ed ho sentito subito un vociare confuso nella torretta di comando posta sotto la torretta del 2° D.T.. Dall’A.P.G. del 2° D.T. non si è visto il bersaglio e neppure dalla punteria della torretta. Si seguivano solo a controindice le indicazioni della colonnina. Dopo pochi secondo ho sentito uno scossone violento; mentre aspettavo il rumore dei nostri cannoni che reagivano ho sentito un altro scossone più violento che ha fatto sussultare la nave. Siccome non sentivo ancora sparare, ho fatto aprire la porta della torretta ed ho fatto affacciare un sottufficiale che mi ha riferito che la nave era ferma, sbandata sulla sinistra e che affondava. Dopo altri 30 secondi ho sentito un altro scossone più lontano. Ho detto al personale di mettersi in salvo”

Anche sul di Giussano, l’avvistamento delle navi nemiche avvenne subito dopo l’accostata, anche se qualcuno aveva già notato delle sagome scure a dritta prima dell’accostata stessa.

I primi avvistamenti avvennero dalla plancia comando, dalla controplancia e dalla plancia mitragliere “Ombre di prora al Da Barbiano. Due, tre, quattro piroscafi”, forse pensando a quei piroscafi da Malta che Supermarina aveva preannunciato.

In quel momento il Da Barbiano si trovava spostato di circa 20° sulla sinistra del Di Giussano coprendolo rispetto ai cacciatorpediniere inglesi e il Di Giussano manovrava per riportarsi in linea di fila.

Il C.V. Marabotto, comandante dell’incrociatore, ordinò di passare in punteria sui bersagli che spuntavano sulla sinistra dietro il Da Barbiano e nello stesso istante giunse dalla nva ammiraglia, in chiaro l’ordine “Vela 30” che fu subito passato alle macchine che probabilmente non ebbero il tempo di eseguirlo.

Dopo una trentina di secondi si videro colpi di mitragliera partire dalle navi nemiche verso il Da Barbiano che subito dopo fu avvolto da una grande fiammata, si fermò e cominciò a sbandare. L’aver avuto qualche decina di secondi in più a disposizione, prima di essere investito dal fuoco avversario, servì al Di Giussano per far partire tre salve con le torri di prora e due con le torri di poppa. Anche i complessi da 100/47 e le mitragliere di sinistra spararono alcuni colpi e a bordo si ebbe l’impressione di aver messo qualche colpo a segno perché si vide una fiammata ed una esplosione su brandeggio 300° a 1500 metri circa. Si trattò evidentemente solo di una impressione, perché da notizie successive le navi inglesi non riportarono danni importanti dalla breve azione di fuoco.

Il Di Giussano tentò un’accostata a sinistra per presentare la prora ai siluri che si avvicinavano, ma impedito dal Da Barbiano ormai fermo dovette rimettere barra al centro ed un siluro passato di poppa al Da Barbiano, lo colpì a mezza nave.

Immediatamente il timone si immobilizzò, le comunicazioni mancarono, le torri cessarono il fuoco e la nave sbandò di 15° sulla sinistra. Non erano passati più di due minuti fra l’avvistamento e il siluramento.

Il siluro colpì la nave nel locale caldaie 5 e 6 causando la rottura dei collettori di vapore e provocando l’arresto delle macchine e delle turbodinamo. Subito si sviluppò un violento incendio nel locale macchina di prora dovuto forse a qualche colpo nei depositi nafta o al cedimento della paratia con il locale caldaie.

Le fiamme invasero il locale e uscirono con violenza in coperta attraverso l’osteriggio, ma non vi fu incendio del carico di carburante.

Lo squarcio nello scafo causato dal siluro, e probabilmente anche dall’esplosione delle caldaie, dato che le lamiere contorte erano rivolte verso l’esterno, e l’allagamento subito ordinato del deposito munizioni centrale fecero entrare nello scafo una grande massa d’acqua che compromise la resistenza delle strutture della nave che dopo essersi immersa rapidamente fino ad un metro dalla coperta con un certo sbandamento sulla sinistra, si spezzò al centro.

La prora e la poppa si sollevarono dall’acqua, poi i due tronconi discesero lentamente verso il fondo, la prora quasi verticalmente tanto che qualcuno pensò che avrebbe toccato il basso fondale rimanendo in parte fuori.

Tra il siluramento e l’affondamento trascorse poco più di mezz’ora. Alle 04,20 il Di Giussano era scomparso.

L’ordine di abbandonare la nave fu dato 10-15 minuti dopo il siluramento quando la nave, essendo vani i tentativi di domare l’incendio e di ristabilire la galleggiabilità dello scafo, fatti dal personale sotto la guida del Comandante in 2^ C.F. Morisani e dal Direttore di macchina Magg. G.N. Cingano – scomparso poi nell’affondamento – era ormai da considerarsi perduta.

Durante il breve scontro a fuoco il Di Giussano era stato colpito anche da due proiettili da 120, di cui uno esplose contro la frigoria del deposito munizioni centrale, e da numerosi colpi di mitragliera che avevano provocato morti e feriti. Il complesso da 100/47 di sinistra fu messo fuori uso, dopo il siluramento, dal cedimento del basamento.

La Cigno fu impotente testimone della tragedia.

Rimasta distaccata dagli incrociatori per l’improvvisa inversione di rotta, vide chiaramente il siluramento dei due incrociatori, gli incendi sviluppati, il brevissimo combattimento del Di Giussano. Alle 03,25, quando il duello delle artiglierie era cessato, avvistò, a 10°-15° dalla prora, una unità velocissima che avanzava di controbordo.

Dopo averla individuata per nemica accostò contro di essa e lanciò un siluro, sparando con i cannoni e le mitragliere. Contemporaneamente altre unità passarono a dritta della Cigno, che si era incuneata in mezzo alla formazione avversaria.

Lo scambio di colpi di cannone e di mitragliatrice non causò danni particolari; data l’estrema rapidità dell’azione il puntamento fu sommario.

La Cigno ricevette alcuni colpi di mitragliera a poppa ed ebbe qualche ferito; gli inglesi non riportarono danni anche se, come sempre accade, la Cigno ebbe la certezza di aver colpito due o tre volte il primo cacciatorpediniere avvistato che, secondo quanto è scritto nella relazione del Comandante, portava la sigla H64. Evidentemente si trattava di un errore dovuto al brevissimo tempo in cui la sigla fu visibile ed alla confusione del momento; la sigla H 64 apparteneva infatti alla Duchess, affondato nel dicembre 1939. Si trattava forse del Legion che aveva la sigla F 74 o del Maori che aveva la sigla F 24.

La gente del Da Barbiano ebbe poco tempo per mettersi in salvo. Solo pochi zatterini (Carley) furono messi a mare ed i naufraghi, spesso sprovvisti di salvagente, si trovarono nell’acqua gelida aggrappati a qualche rottame.

Basta riportare due brani della relazione dei sopravvissuti per comprendere la loro tragedia.

Ecco cosa diceva il S.T.V. Figari ““Mi sono avvicinato ad una zatterina di legno tipo De Bonis da 12 persone. Vi si trovavano aggrappate una quindicina di persone e sono rimasto anch’io con loro ……. Nuotando ci siamo allontanati con lo zatterino per non essere travolti dalle fiamme. Intanto, a causa del freddo, ogni tanto qualche marinaio si abbandonava, reclinava la testa e lasciava la presa.

“Alle 08,30 passa nelle vicinanze la torpediniera Cigno che sta raccogliendo naufraghi e ci dice che verrà anche da noi. Intanto eravamo rimasti in sette.

Finalmente alle 11,30 circa siamo stati salvati da un MAS che ci portò sulla torpediniera.

Eravamo ancora tre persone””

Ed ecco un brano della relazione del Ten. Crem Bardi ““Dopo circa trenta minuti che mi trovavo in mare vidi l’albero di una imbarcazione di bordo e mi afferrai. In breve la gente attaccata all’albero salì a 8 persone di cui il fuochista Urlara che invocava soccorso e visto che era sprovvisto del salvagente gli diedi il mio e tanto bastò per farlo tornare alla calma ed alla fiducia. Dalle ore 5 alle 06,30 molti attaccati all’albero si abbandonarono. Rimanemmo in due, io ed il fuochista Urlara. L’incendio si estinse all’alba”.

Molti raggiunsero nuotando la costa non lontana. Sulla spiaggia di Keliba furono raccolti una cinquantina di naufraghi di cui 4 feriti, altri 25 a Ras Hauria e tre feriti a Ras Adar. Molti, anche, perirono nel tentativo perché deboli, feriti o poco resistenti al nuoto. “Durante il mio percorso verso la costa ho incontrato il 2° capo Cipriani che i disse che era stato ferito ad una spalla ed il S.C. Della Pasqua che però non era ferito e mi chiese quanto la costa era lontana” narra il G.M. Niccolini: “Ci chiamavamo per tenerci vici finché il Cipriani non dette più alcun segno e successivamente anche l’altro””.

L’Ammiraglio Toscano non fu più visto dopo che la sua nave affondò. Dalla relazione del S.C. Vincenzo Antro possiamo immaginare quali fossero gli ultimi momenti della sua vita: ““Mentre imboccavo l’ultima scaletta che immetteva in coperta sentii la sua voce fioca di persona sofferente, mi avvicinai e riconobbi l’Ammiraglio che mi diceva: “Aiutami sono ferito” – e stava faticosamente in piedi aggrappato con una mano alla ringhiera della plancetta. Nei pressi non c’era nessuno. Mi prodigai a soccorrerlo, lo presi sulle spalle e riuscii a stento a portarlo nei pressi dell’hangar. Dato lo stato in cui si trovava doveva essere ferito gravemente. Corsi a prora per cercare aiuto e una zattera ma non trovai né zattera né persone che potessero aiutarmi. Tornai presso l’Ammiraglio nell’intento di essergli di qualche utilità ma per l’oscurità fitta per l’intenso sbandamento ogni sforzo riuscì inutile. L’Ammiraglio non poteva assolutamente muoversi perché versava in gravissime condizioni. Riuscì appena ad articolare queste parole – “Lasciatemi qui, salvatevi”. – Solo allora decisi di gettarmi in mare””.

Anche il Comandante della nave C.V. Giorgio Rodocanacchi non fu più visto dopo che ebbe dato il suo salvagente al S.C. Bettini che ne era sprovvisto.

L’affondamento del Di Giussano avvenne più lentamente e vi fu tempo di mettere a mare gli zatterini, di lanciare fuori bordo materiale galleggiante e soprattutto di ammainare la lancia di sinistra che, col Comandante a bordo, riuscì a raccogliere moltissimi naufraghi portandoli sulla Cigno o a terra, prodigandosi alla ricerca fino a mattino inoltrato. La lancia di dritta invece, che sarebbe stata pure utilissima, non fu ammainata per l’inclinazione già assunta dalla nave e per errori e confusione del personale, soprattutto quello di passaggio, che vi si affollava intorno. Nel salvataggio del maggior numero di naufraghi ebbe gran parte la Cigno che nella notte e per tutto il mattino fino a quando, alle 14,00 abbandonò le ricerche non essendovi più nessuno in mare riuscì a recuperare oltre 500 superstiti.

Durante la notte la sua opera fu ostacolata da aerei nemici che sorvolavano la zona lanciando bengala obbligando la torpediniera a manovrare, a distendere cortine fumogene e a reagire con armi di bordo.

A collaborare alle operazioni di salvataggio dalla Sicilia giunsero la torpediniera Sirtori, alcuni MAS e un idrovolante Cant Z 506 che, ammarando, salvò due naufraghi.

Le autorità francesi della costa tunisina e le popolazioni locali, da parte loro, fecero quanto possibile per aiutare i naufraghi che giunsero sulla costa a nuoto, con zatterini o con la lancia del Di Giussano.

10 Dicembre 2014

Autore:

admin


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